Apollineo e dionisiaco: la sublimazione del caos e l’ordine raziocinante. Dall’antica Grecia al ‘900 filosofico

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 “Apollo misura, cerca la giusta distanza dagli oggetti, li rappresenta liberamente ma sempre secondo regole, tenta, in sostanza, di capire la natura. Dioniso accetta il mondo com’è, rifiuta ogni lontananza, è il sì alla vita nella sua totalità, compreso il caso, il dolore, la morte, è il Dio pazzo che beve, danza e ride.”

Il passo, tratto dall’opera “La nascita della tragedia” di Friedrich Nietzsche, mirabilmente illustra e analizza le arcane componenti dell’arte e della vita che hanno solcato il florido terreno della cultura dell’antica Grecia, spingendosi fino al ‘900 tedesco: lo spirito dionisiaco e lo spirito apollineo.

Nelle figure del dio Apollo e del dio Dioniso, il culto religioso ellenico rintraccia l’ancestrale essenza, che si annida nell’animo umano e, come una guida, ne ammaestra e ne orienta le azioni, gli impulsi, i sentimenti.

Lo spirito dionisiaco inneggia alla vita, al parossismo pazzo e sublime delle passioni, saltella attorno al fuoco della distruzione, corteggiandola e bramandola. Si consacra agli eccessi sfrenati, schernisce la squallida riservatezza dei limiti. Dioniso, estaticamente, contempla il caos che domina l’esistenza, da esso si lascia sedurre e lascivamente si abbandona all’ineffabile anarchia dei sensi, infischiandosene di conoscere l’intima logica, che intesse le trame della realtà, tollerando il dolore che da essa effonde.

Lo spirito apollineo si agghinda sobriamente dell’orpello della misura, si adagia nella culla di un equilibrio serafico, si impernia sui pilastri dell’ordine e del raziocinio. Apollo manca del titanico coraggio di “dire sì alla vita”, al contrario rifugge il tumulto orgiastico in cui essa è imbrigliata, tentando a tutti i costi di sgarbugliare le sue dinamiche incomprensibili, camuffandole con la maschera della ragionevolezza. Attorno allo scompiglio dell’esistenza, egli cuce un vero e proprio velo di Maya, che occulta l’insensatezza ed esalta la “calma magnificenza”, che si inerpica al “principium individuationis” schopenhaueriano, in ragion del quale ogni cosa viene categorizzata, e svanisce il rischio di precipitare negli abissi del caos, sublimato attraverso la forma.

Superba espressione dell’unione dell’apollineo e del dionisiaco, secondo Nietzsche, è la tragedia attica, in cui il primo trasfonde la propria φύσις, “physis” (natura) nell’armoniosa compostezza della trama che si districa lungo un iter ordinato e che “protegge” lo spettatore dall’essenza tragica del coro dei Satiri e dell’attore, in cui si effonde, invece, l’intima indole di Dioniso. Questa splendida caratterizzazione della tragedia, tuttavia, si dissolve con la genesi del “socratico” che pretende di “giustificare il mondo” all’uomo greco, di decodificare con spiegazioni razionalistiche il babilonico disordine in esso intrinseco. L’ottimismo socratico osanna la ragione, che diventa la chiave d’interpretazione per “comprendere l’interezza dell’universo”, esso rifiuta drasticamente il concetto di impenetrabilità della dimensione esistenziale.

Ed è proprio con Socrate, che si inaugura la decadenza della tragedia greca, che non è più mirabile sintesi tra le due componenti primordiali dell’uomo, al contrario è trionfo antinomico e rocambolesco di uno sterile raziocinio. È l’apollineo che, quindi, incontrovertibilmente sorge dal dionisiaco, come sostiene anche Giorgio Colli:

“Si rileverà un aspetto dionisiaco dell’apollineo e per contro un’attitudine apollinea del dionisiaco, perché nel segreto più riposto del segreto della vita cadono e svaniscono tutte le distinzioni.”

Nel ‘900 anche la letteratura si imbeve di questa dualità intercorrente tra apollineo e dionisiaco. Hermann Hesse dà alle stampe “Narciso e Boccadoro”, in cui effigia alla perfezione il contrasto e la sincrona complementarità dei due elementi. Narciso, ascetico insegnante di greco in un monastero, è dotato della straordinaria capacità di penetrare nell’animo delle persone e afferrare la loro intima sostanza; Boccadoro, giovane rampollo, viene indotto dal padre a studiare presso quel monastero, al fine di intraprendere la carriera di monaco e di espiare i peccati della madre. L’asceta ben presto intuisce la natura raminga dell’adolescente e, sebbene tra i due sia nata una silenziosa attrazione spiritualizzatasi in amicizia, Narciso lascia andare Boccadoro alla ricerca di se stesso, a percorrere le fauci della pienezza della vita, dell’amore, delle passioni, a darsi completamente alla sua physis dionisiaca.

“Non è il nostro compito quello d’avvicinarci, così come non s’avvicinano fra loro il sole e la luna, o il mare e la terra. Noi due, caro amico, siamo il sole e la luna, siamo il mare e la terra. La nostra meta non è di trasformarci l’uno nell’altro, ma di conoscerci l’un l’altro e d’imparare a vedere e a rispettare nell’altro ciò ch’egli è: il nostro opposto e il nostro complemento.”

Nel campo artistico, summa impareggiabile di queste due parti costituenti è ripresa da Giorgio De Chirico. L’artista di origine greca, nelle sue opere, ad una pennellata decisa e risoluta, che rievoca il tratto aristocratico e ricercato della classicità, contrappone un contenuto dal significato sibillino e simbolista.

Razionalità e irrazionalità, conosciuto e ignoto, morigeratezza e onirismo, in altre parole apollineo e dionisiaco: questi i soggetti al centro del palcoscenico del teatro del XX secolo che, ancora oggi, ricalcano la scena, presentandosi sotto diversi e multiformi aspetti.

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2 Commenti
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Paolo

Chiarezza di analisi e capacità di sintesi notevoli, complimenti e grazie

Soraya

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