Il festival di Sanremo 2025 ha visto un’estensione del felice (mediatico ma, forse, meno artistico) quinquennio presieduto da Amadeus (dal 2020 al 2024) con la conduzione di Carlo Conti – già direttore artistico nel 2015, 2016 e 2017 – che ha tentato di eguagliarne il successo. Il cast di 29 artisti (dopo il ritiro di Emis Killa) mirava ad evitare prese di posizioni politiche o la trattazione di tematiche sociali, bensì di limitarsi a questioni sentimentali-personali. Questo si è riversato in una omogeneizzazione tematico-stilistica delle canzoni: buona parte di esse, difatti, sono ballad scritte in una configurazione molto basic, tipicamente sanremese, senza particolari o dirompenti eccezioni; o ancora brani all’incessante ricerca dell’effetto tormentone di estrema orecchiabilità, che lascia un po’ il tempo che trova.
Di questo calderone ha fatto notizia la poca varietà autoriale (comune anche ai precedenti anni), con la ridondante condivisione dei soliti nomi che ruotano le proprie firme sotto uno stesso sistema di diritti musicali. I nomi sono Federica Abbate (con ben sette canzoni fermate), Davide Simonetta (con cinque), Jacopo Ettorre e Davide Petrella “Tropico” (che ne hanno firmate quattro) – con episodi di alcune canzoni, come quella di Sarah Toscano, che ne hanno ben otto –, tutti appartenenti alla Universal Publishing.
Non è un caso, in sostanza, che la medietà del livello delle canzoni sia determinata da una uniformazione ad un unico grande stile, un’unica grande penna che appiattisce l’artisticità e non ne fa distinguere le personalità. Parrebbe essere consuetudine di questi tempi musicali, dell’assuefazione del gusto a cui si assiste.
Tuttavia, quest’impostazione discografica, dettata dalla estrema commercializzazione della musica, osservata solamente in quanto prodotto di consumo e, spesso, nulla di più, non è un fenomeno degli ultimi tempi o degli ultimi decenni. Procedendo retrospettivamente, già negli anni ’50 e ’60 circolavano gli stessi nomi che condividevano più di una produzione autoriale, la quale, nel mercato discografico, trovava affidamento nei più disparati interpreti (molti dei quali usava già Sanremo come vetrina). A titolo d’esempio, si fa il nome di uno dei parolieri più riconosciuti per vedere il funzionamento interno di tale meccanismo: Mogol. Riconosciuto, tipicamente, come paroliere di Lucio Battisti, non si è limitato solamente a questa collaborazione, divenuta iconica, quasi a formarne una simbiosi artistica (Battisti-Mogol, anche se sciolta negli anni ’80).
Per quanto il pensiero comune, quindi, sia legato al ricordo di questo simbiotico duo, scavando si ritrova il suo nome associato a più artisti: tra gli altri, Mina, Ornella Vanoni, Bobby Solo, Marcella Bella, Adriano Celentano, Mango e persino Anna Tatangelo: questo per dimostrare che l’ingranaggio discografico ha sempre vissuto di questa operazione di marketing, del giro di firme che arricchisce il prestigio autoriale del singolo compositore. Più che questo, si vuole indicare una suggestione riflessiva circa il piano prettamente creativo-artistico: Mogol, così come il figlio Cheope, Giancarlo Bigazzi, Guido Morra e altri illustri nomi della musica leggera, nella produzione artistica, sono riusciti, forse, a individuare nella personalità del cantante per il quale scrivevano una cifra specifica, diventandone quasi dei sarti. Insomma, è la combinazione autore-interprete a rendere autorevole un prodotto, e forse non la mera diversificazione autoriale: che si sia persa questa capacità?
Al di là di questo discorso, in questa omogeneizzata edizione, si sono distinti, per coraggio e originalità: La mia parola di Shablo feat. Guè, Joshua e Tormento (quest’ultimo membro dei Sottotono), un tripudio di Hip-hop, urban, gospel, R’n’B; della stessa ricercatezza, che spazia tra più generi, certamente Anema e core, tra il raggeaton e il jazz, com’è jazz la tecnica vocale di Serena Brancale, che fonde barese e inglese ad un titolo in napoletano (in omaggio a Pino Daniele), tra il tribale e il contemporaneo; Eco di Joan Thiele, vincitrice di un David di Donatello, una canzone di classe, non facile e avvolgente, dedicata al fratello; Grazie ma no grazie, di Willie Peyote, unica canzone di ascendenza politica, con sonorità blues e interpretata da una grande padronanza del rap e un personalissimo flow.
A dominare la scena è stata Giorgia, una voce straordinariamente potente, rotonda e armonica; le sue svisate si configurano, da sempre, come ornamenti stilistici che diventano il suo marchio distintivo. La cura per me, tuttavia, non è un granché (scritta da Blanco, come anche quella di Noemi e di Irama), sofferente di una penna debole e anonima, di versi blandi e banali, che non mette in risalto le sue doti vocali: abbiamo assistito ad una Giorgia col freno a mano tirato, che non arrivava dove poteva arrivare, volutamente limitata (forse per timore?) nell’estensione; questo lo si è visto in particolare venerdì, durante la cui esibizione di Skyfall (di Adele) quasi sembrava non reggere il confronto con Annalisa (che cantava ad un’ottava sopra), bastando ugualmente a vederla trionfare nella serata delle cover.
Ma se si dovesse racchiudere l’intera edizione sarebbe con questa espressione: il trionfo del cantautorato. Fin dalla prima serata hanno dominato, sorprendentemente, tanto il televoto quanto i giudizi della sala stampa, tre nomi e tre progetti artistici di autenticità espressiva. Sono stati pochi i brani in gara fuori dai circuiti omologativi sopra descritti, che hanno mantenuto un’impronta propria.
Simone Cristicchi, veterano del festival alla sua sesta partecipazione, dopo anche la vittoria del 2007, dedica la sua Quando sarai piccola alla madre. La canzone, in un climax ascendente delicato, tratta la malattia neurodegenerativa, l’Alzheimer, descrivendone quella parte, forse quella patina, più romantica: la vicinanza sentimentale, nell’inversione di ruoli che porta da figlio a diventare padre, il piccolo a farsi grande, e viceversa (“Ci sono pagine di vita, pezzi di memoria/ Che non so dimenticare. / Eeee… è ancora un altro giorno insieme a te,/ Per restituirti tutta questa vita che mi hai dato/ E sorridere del tempo e di come ci ha cambiato”). Guadagna da subito consenso, facendo breccia nel pubblico, riscuotendo in ogni serata una spontanea standing ovation. Decide di accompagnare la sua poesia con una musica volutamente scarna, volutamente essenziale (un violino e un pianoforte), inserendo tutta l’esperienza del suo percorso mistico-teatrale – ha all’attivo uno spettacolo dedicato a Francesco d’Assisi e un concerto dedicato a Franco Battiato; di quest’ultimo, in linea con l’intero percorso, esibisce, alla serata delle cover, La cura, in coppia con Amara (co-autrice del brano sanremese).
Al tema del rapporto genitore-figlio si accosta anche Brunori Sas, fine cantautore (unico – assieme a Kekko dei Modà – a firmare in singolo il proprio brano), con una penna di grande riconoscibilità. L’albero delle noci è un brano di grande evocatività, che dietro l’espediente dell’albero, fonte d’ispirazione creativa dell’autore, riflette il passare del tempo, il mutamento e la responsabilizzazione di un figlio che diventa padre, pur non sentendosene in grado (“Io come sempre canguro fra il passato e il futuro/ Scrivo canzoni d’amore alla ricerca di un porto sicuro […] Vorrei cantarti l’amore, amore/ Il buio che arriva nel giorno che muore/ Senza cadere/ Nella paura di farti male”). Brunori, sulla scia di Francesco De Gregori, infonde il testo di metafore forti, espressive e un lessico alto e ricco, degno dell’autentica canzone d’autore.
“La rivelazione”, partito in sordina (visti anche i pochi ascolti da cui partiva) è stato Lucio Corsi. Volevo essere un duro è una dichiarazione di intenti, o di sogni; quelle speranze a cui ci si aggrappa, fantasiosamente, con cui ci si interfaccia, contra la consapevolezza della propria normalità, di essere se stessi (“Volevo essere un duro/ Che non gli importa del futuro/ Un robot/ Un lottatore di sumo/ È un gioco da ragazzi/ Me lo diceva mamma ed io/ Cadevo giù dagli alberi/ Quanto è duro il mondo/ Per quelli normali/ Che hanno poco amore intorno/ O troppo sole negli occhiali”). Il percorso di Corsi è stato proprio all’insegna del sogno, del trasognato inseguire la propria fantasia in una perennità che fa a botte con la realtà (d’altronde, “le lune senza buche sono fregature”). Impreziosisce la sua avventura con una, anch’essa, trasognata esibizione, nella serata delle cover, con Topo Gigio, regalando un momento di iconicità televisiva: un omaggio a Domenico Modugno (il quale aveva dato tra i primi la voce al celebre personaggio di fantasia), sulle note di Nel blu dipinto di blu, resuscitandone una memoria eterna.
In un festival dove vince Olly, a trionfare davvero è la musica alta, il cantautorato. Lo provano il premio al miglior testo “Sergio Bardotti” a Brunori Sas, il premio alla migliore composizione musicale “Giancarlo Bigazzi” (ma anche il premio della sala stampa “Lucio Dalla” e il premio Lunezia al valore emozionale) a Simone Cristicchi, il premio della critica “Mia Martini” a Lucio Corsi, e da aggiungerci il premio TIM alla straordinaria voce di Giorgia. Contro la facilità dell’immediatezza d’ascolto, si dimenerà sempre, ergendosi come una delicata esplosione, sottobanco, l’artisticità nella sua autentica purezza.