No significa no, anche dopo 30 secondi. La cultura dello stupro e la vittimizzazione secondaria

Tempo di lettura: 7 minuti

30 secondi di tempo massimo per reagire a una violenza sessuale

Sembra uno scherzo, ma non lo è.
La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di assoluzione dell’ex sindacalista CISL Raffaele Meola, accusato di violenza sessuale, ai danni di una lavoratrice che gli si era rivolta per un parere in merito a una controversia con il suo datore di lavoro.
L’uomo l’aveva ricevuta nel suo ufficio e aveva iniziato una serie di toccamenti sessuali espliciti, fino alle parti intime. La donna aveva interrotto l’azione dopo pochi secondi.
In primo grado il sindacalista era stato assolto dal reato di violenza sessuale perché non erano stati riscontrati elementi di violenza, minaccia o abuso di autorità e la donna non aveva subito alcun costringimento fisico né la condotta si era concretizzata in atti idonei a superare la sua volontà contraria, per insidiosità e repentinità, siccome i toccamenti si erano protratti per 20 o 30 secondi, senza che avesse espresso un dissenso: una finestra temporale considerata dai giudici troppo prolungata e che dunque avrebbe consentito alla donna di “potersi dileguare. L’assoluzione era stata confermata anche nel secondo grado di giudizio. 

La prima domanda che sorge spontanea è sicuramente come sia stato possibile cronometrare il no al ventesimo/trentesimo secondo per utilizzare poi tale tempistica per annullare totalmente il dissenso della donna e screditarla nelle aule di tribunale.
Ma poi, qual è il tempo di reazione a una una violenza sessuale? Esiste un tempo? E chi lo definisce?

A seguito del ricorso della Procura generale di Milano e della parte civile, assistita dall’avvocata Teresa Manente, responsabile dell’ufficio legale dell’associazione Differenza Donna, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di assoluzione stabilendo che l’ex sindacalista dev’essere sottoposto a un processo d’appello bis. 

Le motivazioni della Cassazione

  • Indifferente la breve durata e la capacità di sottrarsi della vittima

La Cassazione sostiene che le decisioni dei primi due tribunali “non abbiano fatto buon governo dei consolidati principi affermati dalla giurisprudenza in materia di violenza sessuale, con riferimento alla specifica ipotesi della condotta del gesto repentino o insidioso”, specificando che il reato di violenza sessuale “ricomprende, oltre a ogni forma di congiunzione, qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, ovvero in un coinvolgimento della corporeità sessuale di quest’ultimo, sia idoneo e finalizzato a porne in pericolo la libera autodeterminazione della sfera sessuale”.
È stato precisato che per la consumazione del reato è sufficiente che il colpevole raggiunga le parti intime della persona offesa (zone genitali o comunque erogene), essendo indifferente che il contatto corporeo sia di breve durata, che la vittima sia riuscita a sottrarsi all’azione dell’aggressore o che quest’ultimo consegua la soddisfazione erotica.

  • Irrilevante il ritardo della reazione di dissenso

La Corte ha poi ribadito che lo sfioramento o il toccamento repentino e insidioso integrano sempre la fattispecie della violenza sessuale consumata e che il ritardo nella reazione, cioè nella manifestazione del dissenso, è stato irrilevante

  • Il consenso

La Cassazione ha ricordato infine come varie sentenze abbiano stabilito che, per essere esenti da responsabilità nelle violenze sessuali, è necessario che l’agente acquisisca il consenso del destinatario degli atti sessuali, o comunque non lo escluda in base del contesto, anche in caso di gesto repentino e insidioso

Il freezing: quando il corpo non reagisce

Un’altra domanda che sorge spontanea è: chi decide come e dopo quanto deve reagire una vittima di violenza sessuale? Esiste un modello di vittima?

La Cassazione ha sottolineato come la giurisprudenza ritenga che sia irrilevante, ai fini della configurazione della violenza sessuale, la reazione della vittima, perché la sorpresa può essere tale da superare la sua contraria volontà, così ponendola nell’impossibilità di difendersi. Ha chiarito che, nella letteratura scientifica, è spiegato il fenomeno del blocco emotivo o freezing, cioè l’incapacità di reazione dovuta alla paura o al frastornamento per l’imprevedibilità della situazione e l’incapacità di fronteggiarla e che non esiste un modello di reazione o un modello di vittima

Gli esperti Ebani Dhawan e Patrick Haggard hanno pubblicato sulla rivista Nature Human Behaviour una “comprensione delle prove neuroscientifiche sull’immobilità involontaria durante la RSA [stupro e violenza sessuale] che potrebbe prevenire le inappropriate colpe delle vittime”. In questa ricerca, si osserva che il 70% delle donne vive come reazione una sorta di  immobilità o “effetto di congelamento” durante lo stupro o la violenza sessuale. Ciò costituisce una “risposta involontaria evolutiva e conservativa, caratterizzata dalla mancanza di un normale controllo motorio volontario”.
In particolare, nella ricerca si legge che le vittime di RSA possano rimanere immobili “a causa di una risposta neurale involontaria alla minaccia, che blocca i circuiti cerebrali deputati al controllo volontario del movimento corporeo”.
L’aggressione attiva una sequenza difensiva di risposte di paura e minaccia e può attivare una risposta diversa, nota come immobilità tonica (prolungata, con postura rigida) o immobilità collassata (caratterizzata da perdita di tono muscolare). 
Con il termine freezing, quindi, ci si riferisce a quel processo psico-fisico innescato da un forte trauma che non consente alla persona che lo subisce di reagire, sottrarsi al pericolo e dunque poter scappare o ribellarsi.
Nella pubblicazione, viene proposto il termine specifico IRSA, ossia “immobility during RSA (immobilità durante l’aggressione sessuale) per descrivere questo aspetto del comportamento delle vittime, che riportano un forte desiderio di fuggire unito all’incapacità di farlo.

Quindi, esiste un tempo per reagire a una violenza sessuale? Esiste un modo, un comportamento? Esiste la “vittima modello”? NO. Esiste il consenso.
Un rapporto sessuale è un rapporto sessuale se tutte le parti prestano il loro consenso e sono coinvolte. Altrimenti è una violenza.
No significa no, anche dopo 30 secondi, anche dopo 30 minuti. Altrimenti è una violenza.

La legge: l’elemento del consenso nel reato di violenza sessuale

Il reato di violenza sessuale è disciplinato dall’art. 609-bis del codice penale:

Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni.
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:
1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

Da una prima lettura ci accorgiamo immediatamente che manca un riferimento importante. Il legislatore, concentrandosi sulla condotta costrittiva (incentrata su un concetto di forza fisica) ha lasciato un vuoto in relazione alle modalità con cui si può configurare il mancato consenso di chi subisce violenza sessuale. 
Il concetto giuridico di consenso è sempre stato molto complesso e problematico, dovendo lo stesso essere lecito, libero, chiaro, informato, e validamente prestato. Se la norma tace, è palese quindi la difficoltà della configurazione di un dissenso nei casi in cui una persona subisca un atto di violenza sessuale.
In presenza di un tale vuoto legislativo, è la giurisprudenza a incentrare la condotta della violenza sessuale sulla lesione della volontà della persona che subisce la violenza.

La Norvegia, ha da poco emendato l’articolo 291 del codice penale sul reato di stupro, ponendo al centro l’elemento del consenso.
In Spagna, nel 2022, la legge “Ley del solo sì es sì ha introdotto il presupposto del consenso espresso in materia di violenza sessuale: il consenso sussiste solo quando “è stato liberamente espresso, attraverso atti che, date le circostanze del caso, esprimano chiaramente la volontà della persona”, specificando inoltre che “silenzio o passività non significano necessariamente consenso”.
Ovviamente, nell’elenco degli stati europei che hanno adeguato il proprio codice penale agli obblighi internazionali manca ancora l’Italia. 

Perché sì, si tratta di obblighi.
Il consenso è uno dei principi fondamentali della Convenzione di Istanbul. All’art. 36 (reato di violenza sessuale non consensuale) si legge che “il consenso deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto”.
La Convenzione di Istanbul è il più importante trattato internazionale per la prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, ed è stato ratificato dall’Italia nel 2013, quindi è una legge internazionale di cui le norme interne devono tener conto. Tant’è che la Cassazione, in merito alle due sentenze di assoluzione di primo e secondo grado che ha annullato, parla di “violazione di legge”.

Attualmente, nel nostro Paese è in discussione una proposta di legge (A.C.1693) che chiede di riformare l’art. 609-bis c.p. ponendo al centro l’elemento del consenso. 
È necessaria questa riforma? Sì. È sufficiente? No. All’intervento legislativo va accompagnato un cambiamento socio-culturale, che educa alla sessualità e al consenso
Siamo stanche di dover spiegare che no è no, di dover giustificare perché non rispondiamo, perché non reagiamo a un catcalling, a uno stupro. Siamo stanche del “non si può più dire niente”, del “non ci si può manco avvicinare se no è molestia”. Perché se vi impegnate un po’, magari riuscite a cogliere la differenza tra “ti trovo interessante, ti andrebbe un gin tonic?” e un “a bonaaaaa” urlato con tanto di fischi e applausi per strada. Se vi impegnate un po’, riuscite anche a cogliere la differenza tra consenso e dissenso!

La cultura dello stupro e la vittimizzazione secondaria

In assenza di una legge che ponga al centro il consenso, ci si dimentica che è l’elemento fondamentale in assenza del quale si configura la violenza.
L’attuale art. 609-bis c.p. e sentenze come quelle di primo e secondo grado del caso in questione, rischiano di alimentare la c.d. vittimizzazione secondaria, quella vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma tramite una seconda violenza che rende nuovamente vittima la persona, attraverso una colpevolizzazione che deriva da stereotipi, pregiudizi e mancanza di formazione da parte delle istituzioni.
Questa sentenza della Corte di Cassazione interrompe la narrazione sociale dominante che costringe le donne a giustificare i propri tempi di reazione, i propri silenzi, a dover spiegare come erano vestite, se avevano bevuto, perché non hanno gridato, perché dopo sono andate in palestra. Insomma, a performare una reazione che sia coerente con la “vittima modello.
È davvero possibile che una donna che subisce una violenza sessuale debba giustificare e spiegare perché ha aspettato 30 secondi per reagire

Continuiamo a parlare di violenza sulle donne, a postare frasi sui social il 25 novembre e l’8 marzo, ma continuiamo a non empatizzare, a non comprendere come possa sentirsi e quali reazioni possa avere una donna che subisce violenza. Continuiamo a deresponsabilizzare chi compie la violenza, e colpevolizzare chi la subisce.
Continuiamo a pensare e rappresentare le donne non come soggetti ma come oggetti del desiderio sessuale maschile. Continuiamo a non capire che la mancanza di un “no” esplicito, non significa per forza sì. Ma nell’ottica della cultura dello stupro di matrice patriarcale, la donna deve dire di “no” subito, perché altrimenti non vale. Peccato che dovremmo comprendere che un mancato consenso o un implicito dissenso non equivalgono al consenso, e che, ricordiamolo, questo può essere ritirato in qualsiasi momento.

Ripetiamolo ancora una volta: il consenso deve essere volontario, libero, valutato tenendo conto della situazione e del contesto, revocabile in qualsiasi momento.
Silenzio non significa consenso. Passività non significa consenso
E il tempo di reazione, il tempo di dire “no”, non ha alcun cronometro.

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Dottoressa in Giurisprudenza, abilitata alla professione forense, con un Master in Studi e Politiche di Genere.
Scrive su diritti umani e attualità, giustizia sociale, violenza di genere, privacy e digitale, gender gap.
È un'attivista digitale, crea contenuti legali per Chayn Italia, una piattaforma che si occupa di contrastare la violenza di genere utilizzando strumenti digitali. Attualmente lavora come redattrice editoriale per una casa editrice.
> La scrittura è politica: è rivendicazione, rivoluzione, rottura.

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