L’espressione “universalismo indebito” nasce nell’ambito della linguistica, della semiotica e delle scienze sociali, e consiste nell’attribuire un valore universale a parole, segni, simboli o pratiche che in realtà sono specifici di una cultura, di un genere, o di un contesto particolare. Si tratta quindi della tendenza a trattare una prospettiva particolare – solitamente quella maschile, bianca, occidentale e borghese – come se fosse universale.
In questa pratica i media mainstream rappresentano il principale veicolo di distorsione della realtà (basta vedere la rappresentazione delle donne nelle pubblicità), in quanto veicolano un preciso modo di essere, rappresentano un insieme di prescrizioni socialmente accettate (all’origine, imposte), che ci indicano quali sono i linguaggi, i comportamenti e le aspirazioni appropriati per uomini e donne. Contribuiscono quindi a costruire una significazione per l’identità di genere di chi osserva, limitando lo sviluppo di libertà e autodeterminazione.
Nell’ambito di film e serie tv, l’universalismo indebito consiste in quella pratica di assumere indebitamente, e dunque in modo ingiusto e inappropriato, solo il genere maschile a rappresentanza di tutti e a “modellare” di conseguenza le altre identità sulla base di quella maschile. Un esempio di questa pratica è la creazione di personaggi femminili “forti” (eroine, guerriere, detective, ecc.), scritti secondo modelli e archetipi maschili. L’eroina, in questi casi, non è autenticamente femminile o diversamente complessa, ma semplicemente una copia dell’eroe tradizionale, “mitigata”.
Elisa Giomi, in “Quaderno di Appunti di Gender e Media”, ha approfondito tale tematica, evidenziando come molti film e serie tv che mettono al centro donne protagoniste non creano un modello narrativo autonomo o autenticamente femminile, ma si limitano a riprodurre ruoli maschili o strategie di addomesticamento.
L’eroina trasgressiva
Negli ultimi decenni, la rappresentazione delle donne come eroine nei film e nelle serie TV ha sicuramente conosciuto una trasformazione significativa. Tra gli anni ’70 e ’80 si assiste alla comparsa in generi mediali tradizionalmente maschili – nei fumetti quanto nelle serie TV e nei film – di figure femminili identificate da ruoli un tempo appartenenti solo a uomini (leader, guerriere, detective, supereroine) e lontane dallo stereotipo della “damigella in pericolo”.
In letteratura, tali figure vengono etichettate come: “tough girls”, “bad girls”, “trasgressive women”, “action heroines” e presentano determinate caratteristiche:
– sono toste, dure, posseggono capacità, competenze, comportamenti, inclinazioni e desideri classicamente maschili;
– sono indisciplinate, ribelli, portatrici di una forte carica antagonista che sovverte l’ideale femminile di obbedienza, disciplina, compostezza, delicatezza;
– hanno una vita sessuale spregiudicata e libera, infrangendo le regole del “decoro femminile”;
– usano armi e/o forza fisica, violenza.
L’aumento della presenza di protagoniste femminili nei film e nelle serie TV ha sicuramente rappresentato un passo avanti verso una maggiore inclusività e riconoscimento del ruolo delle donne nella narrazione contemporanea. Tuttavia, questo cambiamento positivo porta con sé alcune criticità: tale rappresentazione si scontra con l’universalismo indebito poiché non viene creata ex novo una figura femminile autonoma e valorizzata in quanto tale, ma si trasferisce il ruolo maschile su un corpo femminile; si assume che il modello universale dell’eroe sia maschile, e che la donna, per essere considerata eroica, debba rientrare in quel modello, adattandosi ai suoi codici.
Questa omologazione non solo appiattisce la varietà delle esperienze femminili, ma nega anche la possibilità di esplorare forme diverse di potere, resilienza e leadership. Le eroine vengono inserite in una griglia narrativa che le misura con un metro maschile, producendo una falsa inclusività.
Ovviamente l’universalismo indebito non colpisce solo il genere, ma anche l’etnia, la classe sociale, l’orientamento sessuale e altre dimensioni legate all’identità. La rappresentazione delle donne nei media mainstream tende a privilegiare ancora figure femminili bianche, magre, abili, cisgender, eterosessuali e borghesi. In questo contesto, la “donna forte” diventa un’icona che pretende di rappresentare tutte le donne, ma in realtà esclude gran parte di esse.
Le strategie di addomesticamento
Per ricollocare questi corpi nella normatività, si applicano delle strategie di addomesticamento, che si suddividono tra piano visivo e piano narrativo, e che consistono in strategie rappresentative per neutralizzare la minaccia, cioè la donna che non sta al suo posto, ma invade ruoli tipicamente maschili.
Per quanto riguarda il piano fisico, l’eroina viene ipersessualizzata. Appare con un corpo costruito sul canone estetico corrente, magro ma formoso, fasciato da abiti succinti e attillati, e con movenze sensuali (si pensi a Lara Croft, Wonder Woman, Catwoman, Black Widow, ecc.).
La trasformazione della donna in feticcio erotico serve in primo luogo a intercettare la componente maschile del pubblico, target tradizionale di questi generi.
In secondo luogo, bellezza, fascino, sensualità, erotico, generano negli uomini la percezione di una rappresentazione femminile, che, malgrado l’uso di armi e/o forza fisica, rimane del tutto convenzionale, rassicurando lo spettatore.
A tal proposito, nel 1975 la regista e critica cinematografica Laura Mulvey ha coniato il termine “male gaze”, ovvero uno sguardo cinematografico costruito da e per uno spettatore maschile eterosessuale, che oggettivizza la donna riducendola a puro oggetto di desiderio sessuale.
Con l’ipersessualizzazione, la narrazione eroica al femminile si mostra incapace di emergere al di fuori di una certa performatività fisica, in quanto l’aspetto sessuale sovrasta la personalità sovversiva dell’eroina. I personaggi maschili, sebbene a volte sessualizzati, con corpi muscolosi e scultorei, restano protagonisti, la loro fisicità non prevale sulla personalità, non la oscura.
Sul piano narrativo, sempre in “Quaderno di Appunti di Gender e Media”, Elisa Giomi, basandosi su ricerche svolte e sulla letteratura di settore, inquadra precise strategie di addomesticamento dell’eroina che coinvolgono gli aspetti del filo narrativo.
La punizione
L’eroina sconta una pena, paga un prezzo per l’accesso all’eroismo, ai territori, ai ruoli e alle capacità prettamente maschili. Nella narrazione, la protagonista presenta alcune problematiche come un passato traumatico, problemi relazionali, difficoltà a iniziare/mantenere relazioni stabili, solitudine o dipendenza da alcol.
La giustificazione
L’accesso al tipo di eroismo maschile viene giustificato da motivi ben precisi, ricorrenti. Si manifesta la necessità di spiegare perché l’eroina occupi quel ruolo, rendendo il potere femminile mai pienamente autonomo o accettato. Tali motivi narrativi sono dei veri e propri topos:
– la genitorialità: spesso la narrazione è edipica, al centro si trova l’eroina affiancata da una figura paterna (presente o passata), che influenza lo sviluppo della sua personalità. O il personaggio sviluppa la sua storia e le sue caratteristiche partendo dall’assenza della figura materna o dalla maternità stessa, o dalla sua negazione/privazione;
– la vendetta per un torto/danno subito (c.d. “rape revenge motive”): spesso l’abuso, lo stupro, vengono utilizzati come giustificazione, allo sviluppo, da parte dell’eroina, di un comportamento evitante, problematico sul piano emotivo e comportamentale. Il danno subito è poi spesso il motivo scatenante che innesca nella stessa un senso di vendetta. L’eroina viene infatti patologizzata e la sua natura ribelle e trasgressiva, il suo coraggio, la sua indipendenza, non sono presentati come frutto di una consapevole analisi politica ma come risultato di disfunzione emotiva e/o bisogno di vendicarsi.
Il sacrificio
Un’altra strategia di addomesticamento spesso ricorrente è il sacrificio: l’eroina fa scelte che riguardano il proprio corpo o la propria vita, sacrificandosi per il bene comune. Si manifesta il frame dell’amore romantico, che prevede delle regole ben precise – sacrificio e dedizione – e che svolge il compito di rassicurare lo spettatore del fatto che l’eroina svolga comunque la sua funzione di cura.
Sistemi di rappresentazione attraverso esempi concreti
Black Widow
Natasha Romanoff risulta “addomesticata” sia dal punto di vista fisico che narrativo. È un’eroina estremamente sessualizzata, ha un corpo che risponde agli standard estetici tradizionali, magro ma formoso, con abiti attillati che enfatizzano la sua figura, sexy e seduttiva nelle movenze.
È anche rappresentata come una donna tormentata, sola, che porta il peso di colpe passate (punizione). È un’ex spia, ha un passato oscuro e la sua transizione da villain a eroina è narrativamente giustificata da una redenzione personale (giustificazione). Il suo background familiare è fondamentale: assenza dei genitori biologici, e “genitori spie” sotto copertura (genitorialità). È stata sterilizzata per evitare che avesse distrazioni rispetto al suo ruolo di spia (privazione di un’eventuale maternità).
Nel film Avengers: Endgame si sacrifica letteralmente, al posto del suo grande amore Occhio di Falco, dopo una lotta tra i due per chi sarebbe dovuto morire in un sacrificio. La costruzione narrativa è racchiusa nel frame dell’amore romantico, presentato in forma di sacrificio e devozione della donna verso l’uomo e per il bene collettivo.
La stessa attrice, Scarlett Johansson, si è spesso lamentata della sessualizzazione legata al suo personaggio, che non l’ha fatta percepire, almeno inizialmente, come un membro reale degli Avengers.

Buffy the Vampire Slayer
Buffy è un’eroina forte e potente che lotta contro vampiri, demoni e forze del male. Ma la sua rappresentazione non è del tutto sovversiva, il suo potere non è mai del tutto autonomo o politicizzato in quanto è una cacciatrice “prescelta”: il suo potere non è frutto di una scelta autonoma, ma è trasmesso misticamente. Tutte le sue azioni sono dettate da un profondo senso del dovere e della responsabilità, in quanto legate alla sua missione (giustificazione).
Si sacrifica più volte per il bene dell’umanità e la sua vita è segnata dalle difficoltà relazionali e dal sacrificio (punizione, sacrificio).

Fonte immagine: estratto Hall of Series
Jessica Jones
È un ex-supereroina, colpita da un disturbo da stress post-traumatico, che apre un’agenzia investigativa per aiutare le persone e gli altri supereroi in difficoltà.
È una detective forte, indipendente, ma anche emotivamente disturbata, alcolista, isolata, incapace di creare legami affettivi stabili; l’eroina emotivamente spezzata che respinge l’aiuto e combatte da sola (punizione). Il controllo mentale e gli abusi psicologici da parte di Killgrave sono il suo trauma, il motivo per cui si legittima la sua durezza e il suo rifiuto di accettare un ruolo tradizionalmente femminile (giustificazione e motivo di vendetta). Ha perso il fratello e i genitori biologici, ed è stata poi adottata (genitorialità).
Compie più volte scelte dolorose, spesso sacrificando la possibilità di essere felice o in una relazione funzionale, come con Luke Cage, per perseguire la giustizia o proteggere gli altri (sacrificio).

Immagini in licenza Creative Commons v 2 e v 4 – fonte immagine
Veronica Mars
È un’investigatrice, anticonformista rispetto ai ricchissimi compagni di liceo, possiede una capacità di ragionare fuori dal branco, è indipendente. Dopo lo stupro subito, diventa “tosta”, ma incapace di fidarsi, emotivamente chiusa, restando spesso sola (punizione). I suoi traumi sono diversi: la perdita della madre, la morte della sua migliore amica, lo stupro, il ruolo del padre, ex sceriffo e investigatore privato (giustificazione e genitorialità).
Sacrifica ripetutamente una vita sentimentale stabile e una carriera normale per seguire la sua vocazione alla verità e alla giustizia (sacrificio). Lo stupro, in particolare, diventa la leva narrativa che la spinge a sfidare un sistema sociale corrotto e ingiusto (motivo di vendetta).

Fonte immagine: Wikipedia Italia
È possibile un “anti-universalismo indebito”?
L’universalismo indebito è, quindi, quel fenomeno che emerge quando l’eroina deve imitare i codici maschili di forza, eroismo e protagonismo. La società sente il bisogno di creare un modello di eroina basato sul maschile, per poi contenere e mitigare la sovversione femminile, la quale non può quindi sussistere senza una legittimazione proveniente da fattori esterni, come se non esistessero modelli autenticamente femminili di valore.
Le conseguenze della creazione di questi modelli sono diverse:
– la limitazione dell’immaginazione collettiva, impedendo di pensare modelli femminili alternativi di eroismo;
– la marginalizzazione delle esperienze autentiche delle donne, che vengono trattate come “di nicchia”;
– il rafforzamento dello stereotipo che solo “essendo come gli uomini” le donne possano essere centrali, rispettate o ammirate.
L’universalismo indebito tratta il maschile come universale e rende invisibile, o riduce a variante, tutto ciò che è diverso dal maschile. Le figure femminili sono frutto di menti principalmente maschili, ideate per un pubblico maschile, bianco, cisgender ed eterosessuale. E il rischio di questa rappresentazione mainstream è di ostacolare una rappresentazione paritaria negli spazi pubblici che abitiamo quotidianamente.
Può essere, però, pensato e attuato un “anti-universalismo indebito” se:
– il maschile non viene considerato norma, ma una delle tante possibilità;
– si creano modelli narrativi autonomi e alternativi per le eroine, e quindi le donne (e altri generi) non devono adeguarsi a modelli maschili per essere valorizzate;
– si riconoscono e si rappresentano esperienze, linguaggi e simboli plurali, senza ridurli a una neutralità fittizia;
– si forma una pluralità di forme di forza (compassione, resistenza, rete, cura, trasformazione);
– vi è autenticità e complessità nell’identità femminile sullo schermo.
Esempi positivi di eroine
Lidia Poët in La legge di Lidia Poët
La serie Netflix si ispira alla figura della prima avvocata italiana che, nonostante il rifiuto delle istituzioni di farle esercitare la professione, si occupa clandestinamente, e con tratti da investigatrice, dei casi che le vengono sottoposti, dietro alla figura del fratello – che ovviamente può esercitare la professione.
Lidia rompe il ruolo assegnato alla donna borghese dell’Ottocento: moglie, madre, silenziosa. Vuole pensare, parlare, agire. È una soggettività strategica che si muove dentro le crepe del patriarcato ottocentesco e si prende i suoi spazi, con intelligenza e determinazione, senza farsi addomesticare.
Non accetta i no. Con astuzia, tenacia e molta intelligenza persegue i suoi obiettivi, in una società dove pure andare in bicicletta, per le donne, sembra un’impensabile conquista di emancipazione.
La protagonista ha la capacità di prendere le occasioni, ma anche quella di crearsele. Lidia non rifiuta la bellezza o la seduzione, ma le usa strategicamente. La sua libertà sessuale, la sua eleganza, la sua assertività flirtano con il maschile senza mai subordinarsi.
La sua presenza nell’aula di tribunale (luogo di potere maschile) è un atto performativo. Non solo è presente, ma esibisce la propria soggettività, la propria voce, la propria logica. Vuole occupare spazi alle donne non concessi.


Fonte immagini: Wikipedia Italia
Captain Marvel
Carol Danvers è un soggetto politico potenzialmente rivoluzionario e sovversivo. Non è sexy e non ha movenze sensuali, presenta un abbigliamento funzionale e non erotizzato, e il suo stile relazionale è asciutto ma intenso.
Raggiunge la piena realizzazione di sé da sola, senza partner, senza motivazione affettiva. Non dipende dal suo mentore a cui non ha niente da provare (“I have nothing to prove to you”), rifiutando la logica del duello onorevole. Il suo potere è interno, incontaminato, la sua forza non deriva da un trauma, non ha bisogno di legittimazione. Porta a termine il suo obiettivo grazie solo ed esclusivamente ai suoi poteri.
La sua ambiguità sessuale le impedisce di essere collocata nel dispositivo binario del genere e dei suoi orientamenti, rappresentando una frattura nel dispositivo eteronormativo.

Alleanza, rete, cura
Nel film Avengers: Endgame, la scena finale in cui tutte le donne si riuniscono, durante il grande combattimento contro Thanos, può essere analizzata da un punto di vista simbolico con una lente “politica”.
La scena supera la logica individualista e mostra una pluralità di donne con corpi, poteri e origini differenti che si uniscono per affiancare Captain Marvel nella lotta, passando dall’essere cornici al diventare struttura del racconto.
Se tutte le eroine, singolarmente, non riescono mai a essere soggetti effettivamente sovversivi in quanto secondarie e funzionali alle figure eroiche maschili, in quel preciso momento si crea uno spazio di alleanza in grado di attivare un reciproco riconoscimento e stabilire politiche di resistenza rivoluzionaria.
Ripensando una narrazione mainstream in maniera sovversiva, è possibile stabilire alleanze e intese tra soggettività marginalizzate, che facciano rete, che siano politicamente rilevanti producendo uno spostamento simbolico e narrativo nei media egemonici, incidendo sulla rappresentazione del potere, dell’eroismo, della leadership e della soggettività femminile.
In un’intervista, l’attrice Evangeline Lilly, che interpreta Hope Van Dyne/Wasp nel film, ha evidenziato in particolar modo la potenza di questa scena: “Ho amato quel momento e quando lo abbiamo girato si respirava un vero spirito di squadra, una solidarietà, tra tutte noi e mi sono sentita davvero a casa in quel momento. È stato un momento bellissimo e molto divertente. Era molto più di uscire da un portale”.
Citando bell hooks in Elogio del margine:
Gli oppressi lottano con la lingua per riprendere possesso di sé stessi, per riconoscersi, per riunirsi, per ricominciare. Le nostre parole sono azioni, resistenza.
Ripensare storie realmente inclusive, potenti e libere
Abbiamo visto come, nonostante la narrazione dell’eroina si sia evoluta nel tempo, questa difficilmente risulta comunque autonoma e solidalmente sovversiva.
Riconoscere e superare l’universalismo indebito è il primo passo per una rappresentazione più inclusiva e realistica delle donne sullo schermo; non si può semplicemente “includere le donne”, ma è necessario raccontare storie che attingono alla complessità del vissuto femminile – senza cercare di adattarlo a modelli precostituiti – al fine di valorizzare la diversità di corpi, voci, prospettive e culture.
Se la forza femminile è sempre e solo individuale, performativa e mascolina, allora stiamo solo cambiando i nomi dei vecchi archetipi. Serve una narrativa capace di raccontare donne che non salvano il mondo sacrificandosi ma salvano sé stesse, che scelgono la cura e l’alleanza, che vivono nella marginalità, che non rispondono ai canoni di bellezza, che sono queer, disabili, povere, arrabbiate, incerte.
Serve ascolto, non sostituzione.
La rappresentazione delle donne come eroine e supereroine nei media non può ridursi a un semplice cambio di genere nei ruoli tradizionali. Serve ripensare la narrazione mainstream in maniera realmente sovversiva, tramite una trasformazione narrativa che parta dal basso, che dia spazio ad autrici, registe, sceneggiatrici e voci marginalizzate. Solo così si possono costruire storie realmente inclusive, potenti e libere.
Bibliografia
Giomi E., Quaderno di appunti di gender e media, Edizioni Pigreco, Roma, 2015.
Dottoressa in Giurisprudenza, abilitata alla professione forense, con un Master in Studi e Politiche di Genere.
Scrive su diritti umani e attualità, giustizia sociale, violenza di genere, privacy e digitale, gender gap.
È un'attivista digitale, crea contenuti legali per Chayn Italia, una piattaforma che si occupa di contrastare la violenza di genere utilizzando strumenti digitali. Attualmente lavora come redattrice editoriale per una casa editrice.
> La scrittura è politica: è rivendicazione, rivoluzione, rottura.