Pirandello e la multiformità del suo teatro

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Il presente articolo si svolge nella forma dell’intervista impossibile.

Vincenzo: Nella commedia “Ciascuno a modo suo” emerge il carattere vigoroso della critica indirizzata alla borghesia, in tale circostanza ancora più esplicita di quanto ciò non avvenga in altre sue composizioni teatrali. A questo punto, mi sovviene una domanda: come reagirebbe oggi il pubblico se fosse invitato ad osservare i propri errori di civiltà? Sarebbe una reazione tanto diversa da quella della massa intenta alla sommossa degli anni venti del Novecento?

Pirandello: Non esiste probabilmente un tempo in cui il pubblico (alla stessa stregua di me e te) sia del tutto esente da una prospettiva di licenziosità morale, che talvolta ne è la sua più radicata etica: un’affermazione del tutto ovvia per uno come me. Quando assevero che la società dovrebbe prestarsi alla teatralità, non intendo soltanto dire che sarebbe bene che essa si affacci alla “finzione scenica”, valutando dunque l’esteriorità della rappresentazione: il mio invito è nell’introspezione teatrale, quindi un viaggio entro i moti psichici che muovono i soggetti, tutt’altro che meramente finti, cercando di isolare la distinzione -come in “Questa sera si recita a soggetto”- tra esteriorità ed interiorità teatrale. Anzi, bisognerebbe rivalutare l’essenzialità dell’asserzione in conformità alla quale “la realtà supera la fantasia”, frase sulla bocca di tutti ma nella sensibilità di pochi o nessuno. In altre parole, per realizzare a lunghe linee il modello sociale che ho proposto, sarebbe necessaria l’attuazione di un disegno distopico, fatto di coscienze che vivono l’esperienza drammatica del travaglio vitale, che sa di macabro, di un meccanismo mentale esasperante: tutto ciò per cominciare a guardare tutta la realtà come cosa propria, non più come il lontano uomo che comparse sulla scena del mondo come il più distante degli esseri “simili alla propria categoria di umanità”.

V: La tecnica meta-teatrale è stata prevedibilmente incompresa presso il pubblico borghese. Mi chiedo fino a che punto sia applicabile la tecnica meta-teatrale; quanti meta-teatri sono unibili in una rappresentazione scenica che includa la totalità della realtà?

P: Se non c’è un senso della complessità, una marcata tendenza alla problematizzazione dell’esistenza (il che non vuol dire che si debba mancare di leggerezza, di pensiero lieve, delicatamente libero), non c’è teatro che possa essere apprezzato quando si delinei il tentativo di amplificarne le proporzioni intellettuali tra esso e la platea. Del resto, quanto più si insinua il parossismo, tanto più è elevato il rischio di fraintendimento, di scherno, di diserto. Quando parliamo di “educazione borghese”, sembra talvolta si voglia “colpevolizzare” il fatto di non aver esercitato alcuna opposizione a quello stile di vita, quando si tratta di una legittima adesione ad una condotta sociale: il punto è verificare qual è il confine tra accettazione psichica volontaria di quel regime e limite dell’utilizzo di un processo maieutico utile a determinare una variazione comportamentale, senza mai pretendere che ciò imponga una così indicativa differenza rispetto a quanto veduto prima. Potremmo altrimenti dire che ogni uomo vive, in virtù di una deduzione che noi solo empiricamente compiamo, la valutazione di un ventaglio di soluzioni di non sappiamo quanti riferimenti orientativi dei possibili paradigmi psichici, motivo per cui anche il mio teatro non adempie a questo interrogativo, quasi come se neppure un’esperienza collettiva dei “sei personaggi in cerca d’autore” sia sufficiente ad esaurire il circolo di ripetitività temporale di tutti i paradigmi psichici. Per quanto concerne la parte rimanente di una visione che si ponga “dall’alto”, si può asseverare che c’è qualcosa di darwiniano, della selezione naturale, che forse ancora ci sfugge, che dobbiamo ancora impattare per conoscere i meandri di questo abisso che è l’anima.

V: Cosa significa per un uomo realizzare la massima estensibilità del proprio senso teatrale? Soltanto guardare la realtà in modo “pirandelliano”, oppure prestare tutta l’arte possibile perché quella scena assurga a sublimità antitetica alla squallida realtà di soggetti che si trovino al di fuori di essa (anche se paradossalmente anche dentro di essa)? Spieghiamoci

P: Il concetto di teatralità è anzitutto inscindibile dal concetto di naturale espressione dell’agire spontaneo della propria umanità. Perciò, si tratta di una necessità storicamente imprescindibile: senza umanità, non c’è teatro che regga. Allora, il tuo progetto sarebbe fattibile se il cosmo fosse esternamente teatrale e internamente teatrale, come se fosse capace di porre in atto la parodia di se stesso. Del resto, questa attitudine compete a chi guarda dall’alto la madiocritas che sta nel basso, i famosi “personaggi” o “soggetti”, quelli che vengono bollati come tali in funzione dell’incoscienza del ridicolo che pongono sulla scena cosmica, talvolta ritenuti fondamentali alla sopravvivenza del senso di umorismo di cui altri “personaggi” hanno bisogno. Non ci sono dubbi: è al limite dell’impossibilità, ma è giusto che se ne parli per definire una parte del paradigma di questa meravigliosa, lontanissima aspirazione, giacché si assisterebbe ad una teatralità che ingloba la franchezza espressiva, che la trasforma, che la valorizza, che è priva della brutalità della condizione umana o quantomeno cerca di sfuggire da essa, come se ogni personaggio negativo diventasse null’altro che qualcosa di divertente da emulare, senza più il rischio della torpedine nel mondo. Ma questo, caro mio, è forse, e piuttosto, un ossimoro dell’esistenza?

V: Lei ha lasciato intendere il pensiero riflesso su se stesso di “vivere coi suoi personaggi”. Allora, le chiedo: “cosa significa per l’uomo di oggi “vivere coi suoi personaggi”?

P: Urge verificare fino a che punto un uomo è disposto a rendersi teatrale, fino a che punto il rapporto tra la plebe giudicante e l’individuo consapevole della teatralità del cosmo sia riducibile anziché estendibile. È come il meccanismo della rivoluzione: non si può pretendere che esso si adempia prima che una nuova teatralità sociale rimpiazzi quella precedente. Posso auspicare che l’uomo del XXI secolo guardi alla sua condizione intimamente teatrale come a quella del mondo intorno a lui, cercando di proiettare costantemente lo sguardo verso la storia dietro di sé, a quella teatralità che è stata evidentemente più inconsapevole che consapevole delle proprie azioni, allo scopo di combattere l’oscurità che è dentro ciascuno di noi, in attinenza con la mia asserzione per la quale è preferibile conoscere “dell’altro che è dentro di noi e viene chissà di dove e determina “non si sa come’ i nostri atti”. Il desiderio è dunque quello per cui si possa figurare un globo nel quale ognuno non pretenda di cristallizzare la verità (al massimo di tentare una sua ricerca), quanto di adeguare il proprio spirito alla labilità della stessa psiche, alle sue innumerevoli sfaccettature, senza possibilmente essere sopraffatti da una teatralità inconsapevole e negativa: dobbiamo provare a darci reciprocamente un’immagine teatrale positiva, che sembri alludere alla verità, tanto che sia vivida, giacché, se ci abbandoniamo all’istinto teatrale inconsapevole, creiamo uno scempio, uno spettacolo mediatico che ci traghetta nell’abisso del dolore; un po’ come se auspicassimo affinché non si concretizzasse lo scenario della commedia “La Patente”, entro la quale osservare tanti Chiarchiaro che si muovono spavaldi mentre altri li temono per la loro capacità di saper gettare il malocchio, la beffa, la malasorte. Solo costruendo un mondo -a tratti difficoltoso- di riflessioni introspettive per i Chiarchiaro (quanti ne siano) è forse possibile estorcere questo orrido palcoscenico.

Non dimentichiamo che il mio sforzo è stato quello di affermare, profondendo tutta l’umiltà possibile, che l’uomo è un essere incolpevole della sua condizione, sia essa drammatica o tragica, perché ognuno di noi è una delle miliardi di maschere che il destino ha apposto sul nostro volto: rinnovo, allora, la battaglia tra le due grandi diramazioni della teatralità della vita.

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Vincenzo Pio Riccio
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