Qualche tempo fa, mi sono trovata a leggere un libro di Violet Kupersmith: uno di quei libri che leggi perché ti sono in qualche modo capitati in mano in libreria, ne hai sfogliato qualche pagina in mezzo e ne sei rimasta stregata. Ecco, stregoneria è un termine coerente, visto che mitologie, folklore e fantasmi del Vietnam sono esattamente il tema centrale della narrazione.
Finita la lettura, mi sono ritrovata sorpresa da una mia stessa considerazione: non mi era mai capitato prima di scoprire un libro ambientato in Vietnam che non fosse sulla guerra in Vietnam.
Quando si verifica in una regione extra-occidentale un evento tale da innescare un cambiamento nella storia, e specialmente quando questo cambiamento coinvolge direttamente cultura e politica occidentale, la rappresentazione letteraria e cinematografica ne è naturalmente coinvolta. Pierre Nora parla di lieux de mémoire, luoghi della memoria, catalizzatori di identità e interesse collettivo. Il Vietnam diventa la guerra del Vietnam, l’Iran diventa la guerra in Iran, l’Afghanistan diventa i Talebani e così via. Poi, con il trascorrere del tempo, il fenomeno si attenua e lascia spazio ad altro.
La rappresentazione che in questo momento è offerta su quanto sta accadendo sulle coste del Mediterraneo che guardano verso di noi è forse destinata a diventare un luogo della memoria e poi ad evolvere in qualche alta cosa. Ma, al momento, è e deve essere raccolta come ciò che per l’uomo è indispensabile lasciare: una testimonianza. Al festival di Venezia, La voce di Hind Rajab ha legittimamente collezionato 24 minuti di applausi. Qualche mese prima, No Other Land aveva vinto l’Oscar 2025 al miglior documentario.
Sono film che meritano di essere visti, ma il film che voglio proporvi oggi è un altro, di qualche anno fa, la cui visione mi sembra quasi propedeutica ai film più recenti. È un invito al cinema palestinese attraverso il lavoro di una regista, una cineasta, che racconta il conflitto attraverso la tradizione e la quotidianità fragile in città i cui nomi ci sono più che familiari: Nazareth, Betlemme.
Il film che guardiamo oggi è Wajib – l’invito al matrimonio, del 2018, di Annemarie Jacir.
La maniera in cui voglio commentare con voi questo film sarà quella di sempre, su qualche tema che trovo centrale e con qualche riflessione di contenuto. E quindi, come sempre, iniziamo dal disclaimer: da questo rigo in poi il testo contiene spoiler.

Anne Marie Jacir, regista del film
Prima il dovere
Wajib si articola nell’arco di una singola giornata, dalla mattina alla sera. È quasi Natale e noi siamo a Nazareth, nella luce bianca e limpida degli inverni mediorientali. Un padre e un figlio sono in auto, impegnati in un’attività che può apparire quantomeno singolare: consegnare a mano, una per una, le centinaia di partecipazioni di nozze a tutti gli invitati al matrimonio di Amal. Si tratta un’antichissima tradizione della Palestina settentrionale (la Galilea), per cui padre e fratelli della sposa si recano personalmente da amici e parenti a consegnare gli inviti alla cerimonia. Wajib del titolo è esattamente il dovere, regolato dalla tradizione e dall’affetto, verso la propria famiglia.
Così, Shadi e suo padre Abu Shadi (un professore) si mettono in auto pronti a compiere le varie consegne: le lunghe ore trascorse insieme nella vecchia Volvo sono occasione di confronto tra padre e figlio, tra chi è rimasto e chi è emigrato, tra una vecchia generazione che si adatta e una nuova generazione che ribolle, ciascuna con le proprie aperture e le proprie chiusure mentali. La piccola odissea di padre e figlio si snoda attraverso le strade polverose di Nazareth, nei soggiorni di zii e cugini e tra le tazze di tè e le attese della telefona della madre, divorziata ed emigrata in America, di cui ancora non si sa se riuscirà ad esserci alla cerimonia.
Musulmani, ebrei, cristiani e una città
Il film si apre con Abu Shadi che attende in auto fumando di nascosto (ma nemmeno troppo) una sigaretta. La radio è sintonizzata su un canale locale e sta elencando il necrologio, specificando anche luoghi della cerimonia funebre e tumulazione: chiese ortodosse, cimiteri cristiani, moschee e templi. È così che la Jacir ci introduce il terzo dei personaggi principali della storia: Nazareth stessa. Una città appartenente allo stato di Israele ma popolata da musulmani, palestinesi, ortodossi e cattolici e ciascuno con le proprie diverse scelte di vita. Ne è un esempio la famiglia di Shadi: Abu è rimasto nella sua terra con la figlia, mentre figlio ed ex moglie sono emigrati. Nada, la fidanzata di Shadi, è la figlia di un rifugiato politico che Shadi ammira, e di cui Abu Shadi critica una forma di ipocrisia: il lottare per la propria terra lontano dalla propria terra.
Nazareth ha qualche cosa che mi ricorda Roma: una città grande, antichissima, apparentemente distesa sul fianco di una montagna come un grosso corpo sonnecchiante e disinteressato. Eppure è viva, brulicante di attività e di voci e stranamente materna. Le persone si invitano a casa e si portano a mano gli inviti ai matrimoni. Mettono su caffè e offrono birre e incarti di pane a persone che conoscono da una vita o che non vedono da anni. Le donne sono forti, determinate, decisive e sorridenti: vediamo la nonna, moderna e scanzonata, o Georgette che arriva con un vassoio di dolci e commenta ad Abu Shadi che il figlio è un bel ragazzo “ma tu sei più bello”.
Mi sembra che la scelta di lasciare la madre come un’ombra lontana sia funzionale a creare una simmetria con Nazareth stessa: una presenza assente ma influente, con cui bisogna fare i conti. Nazareth è casa, ed è un pensiero che in tanti esplicitano a Shadi. Quasi tutti, soprattutto i più anziani, si aspettano che lui torni presto in pianta stabile, perché non immaginano di poter vivere lontano dalla propria terra.
Gli uomini si confidano così
Il formato di Wajib è abbastanza ricorrente nella storia del cinema: padre e figlio e un viaggio in auto. Facile ricordarsi di La 25° ora (Spike Lee, 2002), Nebraska (Alexander Payne, 2013) o persino Il Sorpasso (Dino Risi, 1962), insomma, un road movie. Il meccanismo scenico del viaggio in auto è molto pratico quando si tratta di dover far confrontare due personaggi maschili perché – a differenza dell’universo femminile – l’emotività maschile è più chiusa, e le confidenze e i confronti si inseriscono in contesti che hanno un altro scopo principale.

Amal alla prova dell’abito – fotogramma dal film
Interessante che – nella realtà – i due attori principali sono veramente padre e figlio: difatti i due personaggi sono straordinariamente credibili nei loro rispettivi ruoli, ma è anche una scelta che dà quel tocco di intimità all’intera narrazione. Il dialogo tra i due è lucido, franco, e in esso parole e non detti hanno lo stesso peso. Abu Shadi è legatissimo al territorio e onora le usanze, ma accetta la coabitazione e scende a compromessi per andare avanti con la propria vita, ha un grande senso del bello, e diventa evidente durante la telefonata forzata con il padre di Nada, in cui descrive ciò che in realtà non vede, una Palestina “piena di campi, vigneti, verdissima in questo periodo” e da cui si vede il Monte del Precipizio. È un uomo che comprende il valore dello scambio (e compra l’orsacchiotto al negoziante per tagliare corto la discussione sul parcheggio riservato ai clienti) e il senso di un dono. La sequenza quasi finale, in cui Abu Shadi cerca di regalare l’orsacchiotto ad un bambino rifugiato che lo rifiuta, è il confronto di una generazione più anziana che ancora crede e compie azioni di generosità pura, e una generazione giovanissima, successiva a quella ribelle del figlio, che invece è completamente disillusa e indurita dalle prove della vita.
Shadi al contempo appare come la mente più aperta: architetto a Roma, fidanzato e convivente senza essere sposato, con un look che il padre guarda storto (capelli lunghi e una camicia rosa). Critica l’architettura che sembra sovietica, le strade colme di spazzatura, l’uso smodato di teli di plastica, ma non comprende la tolleranza del padre verso la coabitazione forzata, né tantomeno il suo caparbio ancorarsi alla tradizione – persino nella scelta del cantante che da oltre 40 anni (decisamente troppi per essere al passo con la moda musicale!) canta ai matrimoni della famiglia. È andato in Italia, dove non vede l’ora di tornare, spinto dal padre o dal suo amico ebreo per metterlo al sicuro da eventuali difficoltà dovute alla sua attività vagamente politica, o almeno così percepita, durante gli anni del liceo.
Ciò che è, ciò che sarebbe
Dopo lo scontro finale tra i due e il litigio sulla strada per l’abitazione di Ronnie, Shadi che torna a piedi viene fermato da un vicino, di cui probabilmente lui nemmeno si ricorda e che a noi non viene presentato. Condividono una birra e qualche pensiero – o meglio, il vicino condivide e Shadi ascolta – che mi sembrano in qualche modo il punto focale del film. Il giovane uomo è quello che Shadi sarebbe se non fosse emigrato: per quanto la sua vita possa essere più difficile di quella del coetaneo, ha una forma di serenità che proviene dal vivere la vita e qualunque cosa abbia da offrire – una casa, un padre, una birra in compagnia, un venditore ambulante che offre il pane caldo con amicizia.
Quando torna a casa, Shadi prepara due tazze e mette sul fuoco l’acqua per il caffè che forse è veramente l’ultimo della giornata. Qualche minuto dopo il padre rientra e completa i gesti del figlio: versa l’acqua e porta il vassoio. Condividono una sigaretta – chi ha smesso di fumare e chi non dovrebbe fumare – e non parlano più della discussione avvenuta un’ora prima.
Parlano d’altro, della madre che forse riuscirà ad esserci e dei teli di plastica, eppure è il momento della concessione reciproca: Abu Shadi commenta che in effetti, è più bello senza teli di plastica. Shadi commenta che però ad Amal piace così. Il padre ripete: “Ad Amal piace così”.
Il film si chiude su questo commento, che è la superficie di un discorso più ampio che padre e figlio non affrontano: esiste un ciò che è, ed esiste un ciò che potrebbe essere. La distanza tra uno e l’altro è minima, lo spazio della decisione – altrui – di mettere o meno un telo di plastica. Eppure è uno spazio minimo su cui i soggetti che parlano non hanno potere di influenza, che in qualche modo è per loro un dato di fatto. Rapportato a un discorso più ampio, la regola vale sempre: la situazione politica, le politiche sociali, gli embarghi di cui veniamo a conoscenza tramite la radio della vecchia volvo, la necessità di invitare Ronnie al matrimonio sono fatti imposti, su cui i personaggi non hanno alcun controllo diretto. Possono adattarsi, discuterne o ribellarsi in mille modi – come gli amici del Nord che hanno ripreso la produzione di vino proibita da anni – ma sono sempre cose con cui viene loro imposto di fare i conti.
Questo film incentrato su personaggi maschili rivela in questo la femminilità intrinseca della sua regia: è la capacità di vedere e rendersi conto la base per poter compiere delle scelte, di qualunque natura esse siano.
Nota: Il libro che vi citavo all’inizio dell’articolo è Costruisci la tua casa intorno al mio corpo, di Violet Kupersmith, edito in Italia da NN Editore.





