Intellettualismo etico socratico nel “Protagora” di Platone

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Per intellettualismo etico si intende che nessuno commetta il male volontariamente, ma per ignoranza. Socrate, dal passo 339-c del “Protagora”, dialogo platonico, si accinge a commentare una poesia di Simonide, proposta da Protagora, in cui per il sofista il poeta sembra contraddirsi nel criticare Pittaco di Mitilene, il quale considera difficile “essere” buono (al contrario Simonide, sottolinea il filosofo, afferma che sia difficile “diventare” buono). Socrate parafrasa il carme mettendo in evidenza che all’uomo buono possa capitare di diventare cattivo, per età, fatica o qualsiasi altro accidente, ma l’uomo cattivo non può divenire buono, ma solo chi era precedentemente tale può decadere dalla condizione di bontà per finire col compiere azioni nefande. Difatti solo dalla perdita di conoscenza, secondo Socrate, deriva l’agire malvagio (intellettualismo etico). Simonide recita (345-d): “tutti lodo e ammiro/volontariamente, chiunque non compia indegnità:/contro necessità neppure gli dèi combattono”. Nessun sapiente, per Socrate che riprende il poeta, ritiene che un uomo possa sbagliare volontariamente, bensì involontariamente, e solo chi sbaglia va ripreso. Successivamente, nel passo 352-b, Socrate domanda a Protagora cosa ne pensi della conoscenza, che per “i più” (interlocutore fittizio di Socrate) non è autorevole e non può governare la vita degli individui; le uniche componenti a guidare gli uomini sono i piaceri e i dolori, da cui vengono sopraffatti. Alcuni piaceri sono ritenuti da Socrate mali in quanto portatori di dolori successivi e privatori di altri piaceri. Invece, alcuni dolori, se osservati con lungimiranza, sono parte del bene. A riprova di ciò, Socrate mette in luce come per lui l’agire bene consista nell’arte della misurazione, arte dell’eccesso e del difetto che consente di compiere la scelta corretta. L’ignoranza, al contrario, è avere una falsa opinione sulle cose di grande valore e affidarsi alla forza delle apparenze: “anche voi avete ammesso che coloro che sbagliano nella scelta dei piaceri e dei dolori, cioè dei beni e dei mali, sbaglia per mancanza di conoscenza, e non solo di conoscenza, ma proprio di quella particolare scienza che avete riconosciuto prima, l’arte della misurazione” (357-d). Da quest’ultimo passo è messa in evidenza la necessità di trovare qualcosa di ulteriore e alla portata “dei più” che faccia da congiuntura tra l’ignoranza e la conoscenza, cioè proprio l’arte della misurazione. Si sottolinea come, in questo dialogo collocato tra quelli giovanili, non si possa ancora parlare di Bene (differentemente dalla Repubblica) bensì di beni al plurale, dunque attinenti all’ambito della doxa corretta, quella strada mediana a cui si è fatto cenno poc’anzi.

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