L’amore ai tempi del coronavirus.

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Cartagena, 1879, Gabriel Garcia Marquez, scrittore colombiano, raccontava nel suo libro “L’amore ai tempi del colera” di come le relazioni al tempo di una pandemia mondiale possano essere complicate. La lontananza era un fattore determinante dell’epoca, ma purtroppo viene riproposto in maniera graffiante nei nostri tempi.


Perché spiegare che cos’è l’amore ai tempi del coronavirus è una situazione spinosa, fatta di sofferenza. Le coppie, durante il periodo del lockdown, hanno vissuto un momento di lontananza forzata lontana dal proprio partner. Il Covid non solo ha attaccato le fondamenta della società (libera circolazione delle persone), ma è entrato prepotentemente nelle nostre logiche emotive. Tutte le forme di amore da diversi punti di vista vengono rimodulate secondo diversi schemi interpretativi: da chi ha semplicemente il proprio partner lontano da casa e non vede l’ora che finisca il lockdown a chi ha una doppia vita amorosa e, per gestire questo tipo di relazione, è diventato una sorta di equilibrista, dove il pericolo di farsi beccare è sempre dietro l’angolo. La costante che ogni tipo di coppia ricerca è il contatto; la pandemia ci ha costretto a modificare, in modo drastico e repentino, pensieri, emozioni, vita di relazione in ambito sessuale; dove forzatamente si è costretti a ricostruire un’intimità virtuale fatta di messaggi, carica di ansia e di paura di non rivedersi mai più, di mancanza reciproca, e di melanconia dei momenti passati.


Nel frattempo il tempo si dilata, e dà spazio all’autoriflessione della propria intimità, quasi come a fare i conti con se stessi, obbligati a vedersi dentro, e ripercorrere tutti i passaggi della propria relazione. Dai momenti indimenticabili agli errori, portando molte volte a riesaminare e vedere con occhi diversi la propria fiamma, mettendo sempre più in bilico la relazione. Perché questo virus è stato un banco di prova per tutte le nostre sfere di socialità, ne usciremo più forti, ma saremo più consapevoli che niente è scontato.

Non tutti i mali vengono per nuocere.

Gli esseri umani non nascono sempre il giorno in cui le loro madri li danno alla luce, ma la vita li costringe ancora molte volte a partorirsi da sé

La pandemia sta inevitabilmente facendo scoprire un lato del mondo a noi sconosciuto. Il capitalismo ci ha fatto vivere in anni di frenesia accelerata e, quando si spegne il motore dell’economia consumistica, ci sentiamo persi. Urliamo alla catastrofe, ridando vita alla citazione di Gabriel Garcia Marquez. Siamo costretti a partorirci da soli, in un momento a noi enigmatico.
Ma non tutti i mali vengono per nuocere; il governo ha imposto la distanza di un metro, cosa che prima era prassi favorita dal capitalismo delle piattaforme e dai social (anche se non era un metro, il distanziamento sociale era all’ordine del giorno), cosa che, adesso, suscita malumori nelle persone, e rabbia nel non abbracciarsi.

Ma se fosse la soluzione per ritrovare un’umanità fatta di persone e non di algoritmi?

Nell’era della digitalizzazione dell’intimità, persi tra mondi di relazioni istantanee, assopiti tra matches e likes cinici, forse la pandemia ha riportato alla luce la mancanza di una coscienza sociale, fatta di incontri dal vivo, da chiacchierate su una panchina  o semplicemente voglia di passare un momento con qualcuno fatto di pelle ed ossa.

Sempre se ne saremo capaci di uscire dall’educazione Smithiana fatta di smartphone, che aumenta l’interazione, ma satura la connessione di persone, perché la distanza fra persone è legge.

Il distanziamento sociale è posto come un dogma nella società in cui viviamo ma, forse, in un’epoca di transizione attraverso  le promesse di un mondo nuovo e con le ossa rotte, possiamo ritrovare il valore dell’incontro, della solidarietà fuori dalle logiche di indifferenza e guerra.


Perché alla fine dei conti, siamo tutti sulla stessa barca.

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