Gig economy e lavoro nero in Italia; perché l’economia del lavoretto ha trovato terreno fertile nel Belpaese

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Auctorare se Auctorari significa asservirsi, assoggettarsi ad altri. Questo termine è stato affibbiato indegnamente alla prostitute, alle donne che lavoravano come attrici in teatro, agli artisti e in generale a ogni forma di attività lavorativa autonoma o subordinata.

L’espressione era diffusa sia nel diritto che nella letteratura e indicava l’attività servile di chi decideva responsabilmente di assumere l’obbligazione di fare o dare qualcosa dietro compenso. In cambio di una ricompensa, cioè, il venditore di forza lavoro accettava un lavoro rischioso, umiliante, infame.
La svendita del proprio status sociale ad una condizione di schiavitù e dipendenza fu sempre additata al punto che veniva fatta risalire a un periodo antecedente alla creazione del diritto. Per molto tempo è stata associata al culto religioso (difatti, l’unica ragione che poteva giustificare un rischio mortale per la propria vita era solo la devozione a un dio).

Questo accadeva nel Novecento, in un clima di disuguaglianze, fermo restando ancora alcune garanzie. Oggi, a regolare i tempi, i costi e i modi del lavoro c’è la “piattaforma”, i loro proprietari, con i loro algoritmi. È arrivato il tempo di capire meglio cosa stia accadendo, cosa significhi concretamente GIG economy e in che modo le nuove tecnologie abbiano regolarizzato l’economia sommersa e, soprattutto, perché l’Italia possa diventare terreno fertile per questa economia.

La Gig economy, conosciuta anche come l’economia del lavoretto, è una tipologia di economia basata sul lavoro occasionale: i lavoratori non vengono considerati subordinati all’azienda, ma autonomi come se fossero degli imprenditori di se stessi. Chiaramente non c’è niente di nuovo rispetto al passato: prima delle economie delle piattaforme, questo tipo di lavoro era stigmatizzato come lavoro nero e adesso viene definito come “lavoro a prestazione occasionale” o “lavoro freelance”, dove i pagamenti sono tracciati, ma rimane la mancanza di tutela dei lavoratori le cui condizioni sono impari e senza assicurazione. Molte volte i mezzi non sono forniti dai proprietari, ma dal lavoratore stesso. Il nostro sistema legislativo fornisce alle piattaforme un vantaggio attraverso la riforma del lavoro occasionale. Infatti il legislatore non può qualificare queste categorie né come autonome né come subordinate.


La situazione lavorativa italiana
La situazione italiana vive costantemente di alti e bassi nell’ambito del mercato lavorativo. Secondo i dati Eurostat nel 2010 il tasso di disoccupazione della popolazione attiva era del 4,1 %, un risultato inatteso in base alla media europea che si attestava al  6.1% (7,1% tasso di disoccupazione italiano rispetto alla media europea 6,5% nel 2014) fino ad arrivare  al 11,4% di disoccupazione(rispetto alla media europea del 6,8%) dietro solo a Grecia, Spagna, Montenegro e Serbia  nel 2017.

Economia sommersa

Una fetta di questo segmento appartiene all’economia sommersa. Secondo l’Istat l’economia sommersa nel 2011 incide sul 12,1% del Pil Italiano. Il lavoro irregolare è un fenomeno strutturale del mercato del lavoro italiano. Si tratta di lavoro svolto senza il rispetto della normativa vigente in materia fiscale-contributiva, quindi non osservabile. Si creano così delle zone franche per il Fisco italiano.

Tipologia contrattuale della Gig Economy
Un alto tasso di disoccupazione unita a un’alta percentuale di lavoro non regolare rende l’Italia uno dei paesi dove le piattaforme Gig possono trovare campo fertile, soprattutto con un’ordinamento giuridico ancora arcaico ed incapace di legiferare su nuovi tipi di scenari.

Ad avvalorare la tesi è la ricerca dell’Inapp secondo la quale coloro che lavorano nel mondo della Gig economy  sono 752 mila persone nel 2017. Di questi il 42% dei lavoratori è senza contratto, il 2,4% ha un contratto co-co-co, e il 19% ha un contratto di collaborazione.

Quanto guadagnano le piattaforme?
Le piattaforme offrono un servizio cloud che favorisce lo scambio di informazioni, disintermediando tra clienti e fornitori di un determinato bene/servizio. I costi per mantenere una piattaforma sono notevolmente ridotti rispetto a un’azienda normale per un duplice motivo. Non esistono costi relativi ai mezzi di produzione visto che non offrono ai loro lavoratori i mezzi per lavorare e soprattutto non sono tenuti a risarcire gli infortuni perché la maggior parte degli utenti che lavorano nella Gig economy sono sprovvisti di un contratto e quindi di tutele.
La Banca d’Italia ha condotto una ricerca sulle piattaforme che offrono lavoro nella Gig economy. Dal 2011 al 2017 il fatturato delle piattaforme nel settore dello scambio di servizi passa da poche migliaia di euro a quasi 50 milioni di euro annui.
Il settore che detiene il primato nella gig economy è quello del food delivery, con un fatturato totale di 40 milioni di euro nel solo 2017 che corrisponde a circa 8 volte quello delle piattaforme di trasporto passeggeri e a circa 17 volte quello delle piattaforme di fornitura di sevizi domestici. Si registra inoltre un incremento esponenziale delle piattaforme di food delivery, il cui tasso di crescita annuo si attesta al 250%. Tale tasso di crescita delle piattaforme di food delivery è sicuramente supportato dalla espansione nella domanda dei servizi offerti. Dal 2009 al 2016 la percentuale di italiani interessati alla consegna pasti a domicilio tramite piattaforma è salita dall’1% al 19%.

Dietro queste realtà  ci sono società di capitali, holding e società finanziarie che ruotano attorno a nazioni altamente sviluppate tecnologicamente che detengono il monopolio dell’industria tech. Just Eat nel 2011 ha costituito una joint venture in India. In poco tempo la piattaforma ha raccolto 48 milioni di dollari e ha iniziato l’espansione in gran parte d’Europa e in America. Nel 2016 ha acquistato ed inglobato i marchi HelloFood Italia e PizzaBo, un’operazione che, insieme all’acquisizione di altre attività, è costata 125 milioni di euro. Una cifra veramente bassa rispetto al giro d’affari che genera il mercato del food in Italia (5 miliardi di euro).
La realtà di un mondo interconnesso e altamente funzionale alle esigenze del consumatore sta spostando l’attenzione sull’efficienza produttiva senza contare che chi regge la struttura delle piattaforme non sono macchine ma essere umani. La loro pedalata è lenta, ma può generare una valanga.

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