Influencer: la nuova frontiera del marketing tra poche luci e molte ombre

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Con l’avvento del Web 2.0 e, soprattutto, con l’affermazione negli ultimi dieci anni dei social network, è salita alla ribalta una nuova figura professionale che trova la sua collocazione nel campo del marketing: l’influencer. Questo termine – altro inglesismo che va ad aggiungersi alla già nutrita schiera di cui è ormai stracolma la lingua italiana – sta ad indicare letteralmente un “soggetto influente”, cioè quello che, secondo l’opinione pubblica, è rappresentato da un individuo capace di orientare una grossa mole di opinioni e atteggiamenti, sulla base della sua credibilità e autorevolezza, in merito a tematiche di un determinato settore o area di interesse. Più specificamente, per ciò che concerne il mondo del web, con la parola influencer si fa riferimento a persone che rappresentano un target significativo attraverso cui veicolare messaggi di carattere pubblicitario, tramite social media, al fine di raggiungere una fetta rilevante di pubblico, che sono loro seguaci o più comunemente conosciuti come “followers”, e accrescerne o facilitarne l’accettazione, grazie soprattutto alla loro notorietà o specifica competenza.

Tali influencer, sebbene accomunati dallo stesso schema imprenditoriale, possono essere diversificati sulla base della loro popolarità, del settore merceologico di cui si occupano e, ancor di più, rileva il numero di persone che li seguono sui loro canali social.

Tralasciando i personaggi famosi, appartenenti al mondo dello spettacolo, dello sport o di qualsiasi altro ambito – che la pubblicità sui social la fanno esattamente seguendo le stesse logiche per cui la fanno per le TV o per i giornali e che vengono scelti da grossi brand semplicemente per essere dei volti riconoscibili – il sottobosco in cui si muovono gli influencer noti al pubblico in quanto tali, spesso, non permette di delineare con chiarezza i confini tra l’interesse economico e la reale convinzione sulla bontà qualitativa dei prodotti o i servizi che promuovono. Se non altro perché, mentre i primi fanno pubblicità come semplice conseguenza della loro notorietà e non come attività principale, i secondi, spesso e volentieri, vivono di questo e va da sé che l’aspetto remunerativo venga al primo posto per loro, probabilmente a discapito di una scelta più consapevole su ciò che si va a promuovere. 

In merito al dubbio in questione, recentemente è balzata agli onori delle cronache la querelle che ha visto protagonisti l’influencer Barbara Gambatesa – chi?! – ed il proprietario della pizzeria Errico Porzio, che, per quanto grottesca e dai connotati puerili, dovrebbe invitare ad una seria riflessione tutti noi. 

L’antefatto è, in breve, il seguente: l’influencer è andata a mangiare nella pizzeria di Porzio sul lungomare, senza che quest’ultimo l’avesse chiamata, si è seduta al tavolo, ha ordinato, ha fatto un po’ di foto e video e ha pubblicato tutto nelle stories del suo profilo Instagram, senza che ci fosse alcun accordo preventivo tra le parti. Al termine, come accade a tutti gli esseri umani di questo pianeta, le hanno presentato il conto e lei, convinta di aver eseguito una prestazione lavorativa di marketing, si è risentita ed ha cancellato tutto dal suo canale. Da lì ne è venuto fuori un ping pong mediatico, simpatico quanto un gatto attaccato agli zebedei, tra il proprietario della pizzeria e la stessa influencer, il cui risultato finale è stato, oltre la shitstorm che investito la “malcapitata”, quello di accendere un faro sulle dinamiche che muovono la sponsorizzazione 2.0 e soprattutto la credibilità di quello che passa dai canali social di questi personaggi che senza internet non conoscerebbe nessuno.

Quel che è accaduto, infatti, ha aperto uno squarcio nel velo ipocrita che ricopre la dilagante menzogna di cui sono imbottiti i social network, i quali mostrano quasi sempre una realtà alterata sotto tutti i punti di vista. I dubbi tendono a dissolversi e in quest’ottica gli influencer appaiono sempre più come degli arrampicatori sociali, senza né arte né parte, il cui unico merito è quello di aver compreso meglio degli altri in che modo sfruttare le piattaforme digitali per fini di lucro. Tali sedicenti influencer fanno leva sulle loro abilità comunicative e carismatiche per muovere consensi tra i loro seguaci, i quali seguendoli in massa, di fatto, ne determinano la loro credibilità. Quello che loro definiscono lavoro, cioè pubblicare qualche foto nelle stories con tag a corredo, cosa che peraltro fanno in tanti a gratis nei locali il sabato sera rimanendo umili, è soltanto un modo squallido per ottenere benefit e privilegi a danno proprio di quei seguaci che tanto li osannano. 

Sia chiaro, non è mai corretto fare di tutta l’erba un fascio, ma non si va lontano dalla realtà se si afferma che, fatte le dovute eccezioni, l’opportunismo in barba alla sincerità sia prassi consolidata e molto diffusa tra gli influencer. Orbene, se quello che promuovono è mosso soltanto da un becero opportunismo – della serie: vendiamo pure i frigoriferi agli eschimesi – allora bisognerebbe prenderne le distanze, fino al punto da farli estinguere, perché questi signori con le loro opinioni decretano il valore di un bene o di un servizio, chi vale e chi no, sulla base di uno scambio di favori, piuttosto che seguendo delle regole basate su degli standard di qualità. E quello che ne viene fuori è un gigantesco inganno, che fintanto che riguarda una pizza di un locale famoso di Napoli anche sticazzi, ma se estendiamo questa pratica a qualunque aspetto della nostra vita, allora il raggiro, che in Italia è specialità della casa, assume contorni molto più rilevanti.

C’è da considerare, infine, che nella fattispecie, cioè nel rapporto followers-influencer, la presa per i fondelli vale almeno il doppio: questo perché, a differenza della classica pubblicità televisiva o sui cartelloni, in cui non esiste un legame diretto con il prospect attraverso un canale social, ma spara nel mucchio, raggiungendo anche chi di quel personaggio pubblico gliene frega quanto a Salvini importa dei barconi che affondano in mezzo al mare, il rapporto tra l’influencer e i propri followers dà l’impressione di essere sostanzialmente più intimo, quasi amichevole, basato su una fidelizzazione di carattere umano più che commerciale. E in virtù di ciò un “consiglio per gli acquisti”, esplicito o meno che sia, proveniente da un influencer sarà inteso quasi sempre come dogma assoluto da rispettare da un proprio follower, anche se dovesse vederlo esclamare “che buona!” in un reel – breve filmato visibile su Instagram – mentre mangia un piatto dal dubbio gusto.

Ovviamente non sono esenti da colpe gli stessi esercenti e organizzatori di eventi vari, che per un po’ di pubblicità a quattro spicci legittimano, chiamandoli in causa, il comportamento di questi clown – che Patch Adams spostati proprio – solo in nome della vile pecunia.

Del resto, non è un caso che all’ultima Mostra Internazionale sul Cinema di Venezia sia stata invitata una pletora di influencer, il più intenditore dei quali avrà visto sì e no tre film in croce e che ne capisce sull’argomento meno di quanto Malgioglio ne capisce di donne.

Sull’argomento, nei giorni scorsi, si è anche espresso in maniera netta e polemica il famoso rapper Guè, noto appassionato di cinema, che senza mezzi termini ha manifestato il suo disappunto tramite il suo account X (ex Twitter): «Un altro Venezia con un red carpet pieno di st….i , gente del Gf, e “influnienter” che non hanno mai visto un film». Un affollamento sul red carpet di gente, spesso invitata dai grandi marchi, che col cinema c’entra quanto Putin ad un meeting sulla pace nel mondo, che dà la misura di quanto tutto sia finto e approssimativo e che fa storcere il naso a Guè e tutti coloro che pretendono un minimo di verità.

Al di là di ogni polemica, occorre dire che il problema non è il conto a tavola, il personaggio Tizio o la pubblicità sui profili social, bensì di credibilità. Quando lo capiranno gli influencer in primis, gli esercenti e le aziende poi, restituendo importanza ad un racconto fatto di sincerità e trasparenza verso i followers, privilegiando la qualità per il lavoro e per i beni e i servizi proposti, senza clamorosi inganni dettati solo dal Dio denaro, allora tutto assumerà i contorni di qualcosa di serio, sensato e funzionante. Fino ad allora, tutto quello a cui assisteremo sarà più simile ad un enorme circo equestre, nella speranza che le cose cambino velocemente. Altrimenti continuiamo a prenderci allegramente per i fondelli e buona camicia a tutti.

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