La rappresentazione del sé: l’evoluzione della narrazione del corpo nelle arti

Tempo di lettura: 4 minuti

Può risultare davvero molto complesso, per certi versi perfino effimero, parlare di rappresentazione del sé al giorno d’oggi. Ci troviamo infatti a vivere in un mondo in cui il mostrare e il mostrarsi fa parte della quotidianità: ormai tutti, chi più e chi meno certamente, condividiamo le nostre giornate con persone che hanno fatto dell’esposizione mediatica il proprio lavoro. I media, primi fra tutti i social, hanno reso familiare la narrazione del corpo: se non battiamo quasi più ciglio davanti all’utilizzo di piattaforme come Only Fans, di certo non ci impressioniamo di fronte a nudi cinematografici o toraci semiscoperti nelle prime serate del Festival di Sanremo.

Allargando lo sguardo in maniera critica ci si rende conto di come questo sia il punto di arrivo di una serie di metamorfosi sia della società sia di un sistema dell’arte profondamente mutato nel corso dei secoli.

Sebbene sia vero che i primi esempi di nudo femminile risalgano a raffigurazioni del VI secolo a.C., nel corso delle epoche la rappresentazione del nudo artistico è oscillata tra forti censure e qualche ondata di permissivismo. Il cristianesimo è per eccellenza la religione che meno ha permesso lo sdoganamento del nudo tanto che per ragioni connesse alla fede furono modificati capolavori come la Cacciata dei progenitori dall’Eden di Masaccio o, vicenda tra le più note su questo frangente, il Giudizio universale di Michelangelo.

Ancora nel 1865 il nudo artistico suscitava scalpore. In quell’anno Édouard Manet presentò al Salon l’Olympia realizzata due anni prima: l’olio su tela generò scandalo in quanto la giovane rappresentata aveva tutti i connotati di una prostituta; una narrazione del corpo femminile rifiutata dalla società francese dell’epoca ma che secondo l’intellettuale scrittore Émile Zola aveva il solo «grave difetto di assomigliare a molte signorine che conoscete» (Silvia Bordini, L’Ottocento: 1815-1880, Carocci, 2002, p. 447).

Édouard Manet, Olympia, 1863, olio su tela

Con l’avvento del cinema il corpo, per ragioni legate alle peculiarità del mezzo, cominciò ad assumere un ruolo primario: la fisicità e l’aspetto del divo diventarono elementi fondamentali per il funzionamento dello star system. I protagonisti dei film di successo diventarono icone presenti nella quotidianità delle persone: attori come Rodolfo Valentino, Greta Garbo, Charlie Chaplin o per l’Italia Eleonora Duse sono i primi esempi di una narrazione del sé completamente nuova, inimmaginabile fino a qualche anno prima.

In realtà la rappresentazione del corpo rimase a lungo limitata anche nel cinema: la prima scena di nudo appartiene a Dopo il ballo di Georges Méliés del 1897 ma è una rara eccezione per l’epoca; nel 1930 fu adottato negli Stati Uniti il Production Code, noto con il nome Codice Hays dal nome del suo creatore: dall’industria cinematografica statunitense vennero impiegate una serie di restrizioni riguardanti aspetti giudicati immorali e devianti per lo spettatore, tra cui anche alcuni riguardanti il corpo. Il Codice rimase in vigore ufficialmente fino al 1968 ma già dalla fine degli anni Cinquanta molti registi smisero di ubbidirvi.

Senz’altro anche la televisione fu uno strumento mediatico che favorì la centralità della rappresentazione del corpo; tuttavia, una delle riflessioni di maggior calibro sulla questione venne messa in atto dalla Body Art. Quest’ultima è un’etichetta molto ampia usata per indicare artisti che fanno del proprio corpo il principale mezzo di espressione; i confini della corrente sono però molto labili e hanno molti aspetti in comune, per esempio, con la Videoarte.

Uno degli esempi più celebri della rilevanza che viene data alla fisicità è la performance Imponderabilia proposta per la prima volta da Marina Abramović e il suo compagno Ulay nel 1977. Entrambi nudi e uno di fronte all’altro sull’ingresso della Galleria d’arte moderna di Bologna costringevano i visitatori ad attraversarli e scegliere se rivolgersi verso il lato maschile o femminile nel passaggio.

La performance fu interrotta dall’arrivo delle forze dell’ordine ma è diventata una vera e propria icona della Body Art e di tutta la carriera della Abramović.

Un altro artista che ha lavorato molto con il proprio corpo è Vito Acconci: noto per l’autoerotica performance Seedbed, ha sfruttato in diverse occasioni i dispositivi della Videoarte creando opere ibride. In Centers del 1971, l’artista è rivolto verso la telecamera e, auto indicandosi, cela il proprio volto: crea un vero e proprio gioco di riflessi sia con il sé sia con lo spettatore. In See Through, invece, si riprende mentre lotta da solo allo specchio.

Vito Acconci, Centers, 1971

Oggi, esposti incessantemente a storie e post in cui ciascuno condivide il proprio corpo senza particolari limiti, gli anni in cui le gambe delle sorelle Kessler venivano censurate dalla Rai ci sembrano assai distanti: la narrazione del sé nell’arte può apparire nel 2024 scontata e superata; in realtà, il corpo e il suo simbolismo sono stati oggetto di studio e di ricerca, spesso in contrasto con forti censure, di molti artisti che hanno messo al centro della propria poetica la più spiccata peculiarità del genere umano usandola come mezzo di espressione e di riflessione.

Iscriviti alla nostra Newsletter
Inserisci la tua e-mail e resta aggiornato con i nuovi articoli pubblicati!

Ricorda di confermare la tua e-mail!
icon

Appassionata di ogni forma d'arte, scrive per riordinare i pensieri e comunicare ciò che il mondo le suscita.

Sottoscrivi
Notificami
guest

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

0 Commenti
Feedback Inline
Vedi tutti i commenti