Nel corso di quella che gli storici amano definire l’era moderna della politica americana, ovvero il periodo che va dal 1946 al giorno d’oggi, una regola sembra aver resistito impervia al passare del tempo: l’America può soltanto essere governata nel mezzo. In parole povere, si fa riferimento al principio secondo cui l’opinione pubblica americana odi la retorica degli estremi. Stiamo parlando, infatti, di un paese che, fin dalla sua creazione, è stato imbrigliato in un angusto sistema bipartitico, tale da rendere praticamente impossibile l’ascesa di candidati terzi ed indipendenti. In medio stat virtus, la Casa Bianca è accessibile esclusivamente a coloro i quali si mostrino appetibili alla fascia più larga e moderata dell’elettorato.
Come un mantra, questo principio viene ripetuto da politici, analisti, giornalisti. Recentemente Barack Obama, in uno degli ormai rari interventi pubblici in vista delle primarie, ha consigliato agli elettori del Partito Democratico di non spostarsi troppo a sinistra, poiché “l’americano medio non vuole distruggere il sistema”. Un tacito endorsement nei confronti di Joe Biden, Vice Presidente proprio durante l’amministrazione Obama, ora presunta nomina dei democratici alle elezioni presidenziali di quest’anno. Biden rappresenta il prototipo di candidato in grado di governare nel mezzo: affrontare il problema dell’ineguaglianza sociale ed economica, ma senza inimicarsi i più facoltosi; migliorare il sistema sanitario nazionale, ma senza stravolgerlo. L’ex VP è stato quindi indicato da molti, sia all’interno che all’esterno del mondo della politica, come la scelta più sicura per sconfiggere Trump alle urne. Ed è proprio qui che sorge un problema.
La necessità di un governo nel mezzo è stata fortemente messa in crisi dal vento di populismo che ha portato, contro ogni pronostico, Trump alla vittoria nelle elezioni del 2016. Come una malattia incurabile, il Trumpismo si è insediato silenziosamente, ma inesorabilmente nel Partito Repubblicano. Un outsider, irrispettoso di qualsiasi prassi comportamentale e privo della benché minima esperienza, Trump era inizialmente osservato con sospetto dall’elettorato conservatore che avrebbe preferito un Presidente tradizionale. Ad esempio, il senatore della Florida Marco Rubio, giovane ed ambizioso, o magari Jeb Bush, l’ennesimo discendente della dinastia texana. È quasi incredibile pensare che, a quattro anni di distanza, il tycoon newyorkese goda di un indice di approvazione pari all’87% tra i repubblicani. Trump ha trasformato la politica delle frange conservatrici più estreme, la cosiddetta alt-right di Steve Bannon, nel nuovo mainstream, mettendo in atto un cambiamento che ha ispirato le destre sovraniste di mezzo mondo. Un uomo sprezzante delle più basilari norme democratiche, inappropriato ed impreparato a ricoprire un ruolo di enormi responsabilità e tormentato da una serie infinita di problemi legali, ultimo dei quali il suo impeachment alla Camera. Un uomo che, tuttavia, conta astutamente sul sostegno inequivocabile, irrazionale della sua base. “Potrei sparare qualcuno nel bel mezzo della Quinta Strada e non perderei elettori”. Parole, all’apparenza iperboliche, rivolte tempo fa ad una folla di supporters in Iowa, ma oggi più attuali che mai.
Trump, controverso ed anticonvenzionale, è un inconsapevole innovatore. Il mito del Presidente moderato potrebbe essere sulla via del tramonto, aprendo ad una nuova conflittuale era della politica. Un’era “anormale” dove, abbandonata ogni pretesa di bipartitismo, i rappresentanti del popolo cercano disperatamente l’appoggio di un elettorato sempre più vicino agli estremi, una volta così odiati. O forse Donald J. Trump rappresenta una mera eccezione, un errore da correggere al più presto, affinché si possa auspicare un veloce ritorno alla “normalità”. Agli americani spetterà decidere il prossimo 3 novembre.