Shady Habash, colpevole di pensiero

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Regimi, dittature, oppressioni, soppressioni, restrizioni, coperture, sparizioni, religioni, colpi di stato, rivolte, guerre. Lette insieme, ad alta voce, sono parole che fanno venire i brividi.
Eppure dall’altra parte del mondo, la politica si fa così: tra un morto e l’altro, fumo in cielo, si passeggia per le strade a ritmo incalzante per tornare in casa prima che possa accadere qualcosa.
Ma qualcosa accadrà, lo sai di per certo: sei in Oriente.

A livello internazionale, l’Egitto con il regime di Abdel Fattah al-Sisi, riveste un ruolo di primaria importanza come argine al fondamentalismo jhadista. Ma nonostante la nomina da parte del popolo come «salvatore della patria», al-Sisi secondo Amnesty International, è responsabile per aver deteriorato sempre di più il valore dei diritti umani in Egitto. Ciò che mette il presidente sotto accusa è la nuova legislazione contro il terrorismo firmata nel 2015. Di tale normativa le ONG, a tutela dei diritti umani, hanno avuto molto da ridire.

La verità è che far parte di un regime come quello di Abdel Fattash al-Sisi, significa appartenere ad un velato regime dittatoriale, nell’ambito del quale qualsiasi mezzo d’espressione in opposizione all’immagine presidenziale, ai suoi modus operandi, viene messo sotto accusa come “sospetto terroristico“.

Accusare qualcuno di essere un sospettato terrorista significa fare in modo che nessuno ti cerchi poiché sei pericoloso, motivo per il quale devi essere dimenticato. Significa fare in modo che di fronte ad un giudice, quest’ultimo non si preoccupi di verificare minuziosamente il tuo caso, capire quale crimine hai commesso per sentenziare la tua innocenza o la tua colpevolezza, sei un terrorista, o meglio un sospettato terrorista.

Così succede a Shady Habash, in carcere dal 2018 in seguito alla creazione di un video musicale per il cantate Ramy Essam. La canzone Balaha (dattero), ironizzava circa la fasulla propaganda elettorale di al-Sisi, uscito vincitore, perché altri candidati si erano ritirati prima delle proclamazioni, raggiungendo così il consenso generale. Essam, conosciuto in Egitto per aver trasformato alcuni slogan rivoluzionari in canzoni, si trovava già da anni in esilio in Svezia. Per il regime tale affronto non poteva più essere tollerato e qualcuno doveva pagarne le conseguenze. Non potendo raggiungere direttamente Essam, le autorità organizzano una retata per le persone coinvolte nel progetto musicale. Tre queste, Shady Habash, che con quelle idee non c’entrava assolutamente niente.

Secondo la legge egiziana, un detenuto non può restare in carcere per più di due anni senza un processo. Il periodo di detenzione illegittima per Shady sarebbe dovuto scadere il 1 marzo, ma non è mai stato liberato, e le sue udienze sono sempre state rimandate.

La storia di Shady mette sotto i riflettori il sistema carcerario egiziano, in particolar modo quello del Cairo, a Tora, dove lui stesso resta bloccato. La sua sezione è “Scorpion“, dedicata ai reati di pensiero in cui si trovano tutti i prigionieri politici, ai quali vengono riversati i peggiori trattamenti. Attraverso messaggi che Shady manda alla sua famiglia, il regista racconta di celle sovraffollate, condizioni igieniche indigenti, abuso di potere da parte delle guardie.

Muore la notte del 2 maggio, a causa di forti dolori. Pare avesse ingerito del liquido corrosivo come gesto dimostrativo, come contrasto alle condizioni in cui era costretto ingiustamente a riversare. Dopo le visite mediche, viene rilasciato in cella accompagnato soltanto dalle urla dei compagni che invano imploravano aiuto per il giovane, per tre giorni. Di fronte a ripetuti attacchi depressivi, Shady scrive alla famiglia “Non dimenticatevi di me“, ma se ne sono dimenticati, tutti.

Nella stessa prigione, nello stesso blocco e per la stessa accusa, si trova ora un altro giovane egiziano, studente in Erasmus a Bologna, Patrick Zaki. Viene arrestato il 7 Febbraio per aver pubblicato su Facebook alcuni stati diffamatori per le elezioni del presidente al-Sisi. Da quel momento nessuno ha più sue notizie.

Mentre il resto del mondo va avanti, c’è un altro pezzo che si trascina dietro follie di dittatori in regimi attivi, perché puntano sulle debolezze di un popolo: sulla povertà, sulla paura, in questo caso terroristica. Si gioca sul terrore e lo si incarna, lo si interpreta fino a renderlo reale. Tali regimi puntano alla creazione dello spettro della paura tra le loro genti. Le politiche interne lo sanno molto bene. Quando un popolo è terrorizzato, perché una guerra l’ha prosciugato fino all’ultimo pezzo di pane, è disposto ad accettare qualsiasi mezzo purché arrivi il suo «salvatore della patria».

Il fascino della paura e della rivolta ritrova le sue basi nel reclutamento dei giovani adolescenti che entrano a far parte dell’ISIS. Addestrati tramite pesanti dottrine ed ideali jhadisti, commettono e sono vittime di crimini atroci. Ma il motivo di tale scelta è semplice: sono più giovani, più ingenui e di conseguenza facilmente influenzabili.

Ne siamo tutti a conoscenza, siamo tutti colpevoli di morti illegittime. Fino a quando ci andranno bene accordi di pace con la Cina, l’Egitto, la Siria, Iran, finché qualcun’altro pagherà col sangue le nostre ricchezze, saremo tutti colpevoli. Non conta neanche se è un nostro concittadino a diventarne vittima. Come Giulio Regeni, finito anch’egli sotto le forze delle retate di al-Sisi con la sola colpa di aver manifestato dissenso contro il governo. Finché i Paesi si arricchiranno con le dittature in porto, non importa quanti innocenti moriranno, noi faremo sempre finta di nulla, poiché non ci riguarda.

Giulio Regeni venne rapito in Egitto il 25 gennaio e il suo corpo venne trovato senza vita il 3 febbraio con numerosi segni di tortura. Il ritrovamento del cadavere, deturpato da ogni forma di dignità, destò talmente clamore che il Ministro Federica Guidi nel Cairo per missione diplomatica, fu costretta a tornare in Italia. Le forze dell’ordine egiziane e il Presidente non hanno mai dichiarato nulla sul rapimento, sulle torture violente e sulla consecutiva morte del giovane studente. Anche qui Amnesty International si è fatta sentire, lanciando la campagna Verità su Giulio Regeni.

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