Le mafie nel dibattito pubblico odierno

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I documentari ed i servizi giornalistici sulla lotta alla mafia – prima e durante l’insediamento del pool di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – ci descrivono quasi sempre gli avvenimenti, le personalità coinvolte e le aree grigie che tutt’ora permangono sui rapporti tra Stato, mafia e politica locale. L’alone di mistero e di indefinitezza sono una costante narrativa. Si parla spesso degli omicidi di personalità di spicco, pensiamo ai cento giorni del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa; al fallimentare attentato dell’Addaura nei confronti di Falcone; alla sparizione dell’agenda rossa. Tutti questi argomenti richiamano nello spettatore una recondita attrattiva, la stessa che proviamo leggendo un giallo o ascoltando un podcast true crime.

In questa ricerca spasmodica dell’intrigo attraverso le sfumature e i labili confini delle vicende di mafia si tralascia un pezzo di storia italiana, scritto e custodito nero su bianco negli archivi dei principali giornali dell’epoca. Gli anni 80 e 90 furono anni tumultuosi. Il dibattito pubblico e quello interno alla magistratura non fece sconti al lavoro del pool di Palermo. Tanto che ci furono diversi tentativi di delegittimazione e depistaggio – ufficiali e non – dei due magistrati. A loro – e ad una parte della classe politica che si interessò di mafia – fu affibbiato l’appellativo dispregiativo di “professionisti dell’antimafia”.

Per rendere l’idea della levatura del dibattito di allora – ma soprattutto dell’esistenza di un dibattito, cosa ai giorni nostri non scontata – ad aprire quella stagione fu un articolo sul Corriere della Sera di Leonardo Sciascia datato 10 gennaio 1987 dal titolo: “i professionisti dell’antimafia”. Citava Sciascia per muovere la sua critica al sistema politico-giudiziario:

[…] Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero nella memoria (al generale) le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti… Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. […]riadattato da Il giorno della civettaEinaudi, Torino, 1961

« Ma il fatto è, mio caro amico, che l’Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua… Ho visto qualcosa di simile quarant’anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto».

riadattato da A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966

Con queste due autocitazioni l’intellettuale siciliano si scagliò contro un uso strumentale del discorso mafia di una parte politica che voleva ottenere un certo consenso; e di una parte della magistratura per fini legati alla carriera: Sciascia non risparmiò neanche lo stesso Borsellino, che proprio in seguito al Maxiprocesso venne promosso procuratore capo di Marsala. Per l’intellettuale si trattava di una ripetizione, e cioé di una farsa – equiparabile a quanto accaduto durante il regime fascista ad opera del prefetto Mori, periodo nel quale: “nella lotta condotta da Mori contro la mafia […] assunsero un […] ruolo determinante i campieri […]: che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto.”

Come allora l’antimafia fu “strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile“, così secondo Sciascia accadeva nella vita politico-istituzionale della Sicilia degli anni ’80. Egli volle cioè rimarcare la potenza della narrazione anti-mafiosa quale strumento di potere e di legittimazione dell’establishment. Il parallelismo è inequivocabile; cambia però il fine associato al pretesto: durante il regime fascista la lotta alla mafia prese le sembianze di una necessaria repressione; mentre nel sistema democratico assunse – a parere dell’autore – i toni e il carattere di una retorica anti-mafiosa acritica e fatua.

La posizione di Borsellino emerse in un’intervista del giornalista Saverio Lodato sul giornale “l’Unità”, datata 13 agosto 1991. In questa occasione il giudice raccontò di più incontri avuti con l’intellettuale siciliano. In quelle occasioni – racconta Borsellino – ebbero modo di confrontarsi sul famoso articolo; Sciascia si scusò, adducendo che le sue parole furono travisate dalla stampa e usate dalle istituzioni. Raccontava Borsellino al giornalista – ” Anche durante quel pranzo Sciascia ribadì la sua tesi che il Csm da un lato non sapeva rinunziare a certe sue regole, dall’altro aveva fatto salti mortali per lasciare fisse le regole ma nominare me che ero meno anziano”. Al parere di Borsellino Sciascia era preoccupato del fatto che “l’antimafia era qualcosa che politicamente rendeva, e conseguentemente, accanto a coloro che cavalcarono quella tigre perché ci credevano c’erano anche molte persone che la cavalcavano per tornaconto indivdiuale“.

L’articolo di Sciascia fu – forse involontariamente – uno spartiacque. Tutto ciò che avvenne dopo la sua pubblicazione fu l’inizio di una sequela di articoli di giornali locali e nazionali che tutt’oggi testimoniano quanto fosse vivo il dibattito in quegli anni. Certo erano anni caldi. Per i meno ingenui, o per coloro che conoscono la storia della delegittimazione e dell’isolamento istituzionale subiti da Falcone e Borsellino – il pathos giornalistico di quegli anni poteva essere attribuito ad una forte resistenza interna allo Stato. Ad ogni modo oggi è inconfutabile che di mafia se ne parlasse, e anche tanto.

Negli anni che ci hanno traghettato dalla morte dei due magistrati al nuovo millennio molto è cambiato, ma alcuni errori di sottovalutazione delle cosche sono stati ripetuti. La ‘Ndrangheta ne è un esempio lampante. Negli anni, l’attenzione riposta esclusivamente su Cosa Nostra e sulla lotta alla camorra campana ha oscurato la comprensione delle cosche calabresi. Durante questa fase di latenza le famiglie calabresi si sono rafforzate ed hanno proliferato su scala nazionale ed oltre-confine. Solo con la strage di Duisburg in Germania l’attenzione si ridestò, ma era troppo tardi. Oggi la mafia calabrese è considerata l’organizzazione criminale più potente al mondo.

Dunque non c’è dubbio che il silenzio e l’omertà siano un nutrimento per le cosche. Su questo punto ci riallacciamo alla campagna elettorale 2022 che non sembra essersi posta in controtendenza. A tal proposito torna utile citare un’attenta analisi svolta da Wikimafia, dalla quale emerge che – nonostante alcune delle nostre forze progressiste abbiano incluso dei punti programmatici inerenti alla lotta alla criminalità organizzata, sui social e nelle comunicazioni pubbliche la parola mafia è stata pronunciata dai leader, mediamente, meno di una volta nel periodo della campagna. Anzi, qualsiasi riferimento specifico a camorra e ‘ndrangheta risale a molti anni prima2. Inoltre, quasi nessuna delle forze politiche pare aver proposto una revisione della normativa sui beni confiscati, normativa che, come sappiamo, risente della sua età. Nell’era del capitalismo finanziario i temi caldi non mancano: pensiamo al contrasto delle nuove mafie nell’economia globalizzata; all’espansionismo delle mafie nei mercati finanziari e alle possibili implicazioni sulla concorrenza; o alle infiltrazioni nei fondi del PNRR; o ancora, alla diffusione di una cultura imprenditoriale che sia responsabile e non intimidatoria e predatoria. Ci domandiamo, dunque, su quale terreno si stia giocando la partita contro le nuove mafie. Se negli anni 80 e 90 il terreno era quello delle stragi e della trattativa, oggi il dibattito pubblico non sembra dare a questo fenomeno il peso e il posto che gli spetta nel dibattito pubblico.

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Riferimenti

  1. Giommaria Monti (2006). Falcone e Borsellino: la calunnia, il tardimento, la tragedia. Editori Riuniti. Roma.
  2. https://www.wikimafia.it/la-mafia-ignorata-antimafia-papers/
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Psicologo, con esperienza maturata in ambito organizzativo. Ha conseguito la laurea in psicologia del lavoro con una tesi sul work-life balance.
Co-fondatore de Il Controverso, cura la rubrica #SpuntidiPsicologia e scrive di tematiche riguardanti la criminalità organizzata.

"Scrivo perché amo andare a fondo nelle cose"

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