‘A meglia parola è chella ca nun se dice… a scuola di napoletanità

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“L’italiano è una lingua senza saliva, il napoletano invece tiene uno sputo in bocca e fa attaccare bene le parole. Attaccata con lo sputo: per una suola di scarpa non va bene, ma per il dialetto è una buona colla.”

Erri De Luca

Cullata dalle acque del golfo puntellato qua e là dalle isole di Capri, Ischia, Procida, mirabilmente sormontata dall’isolotto di Megaride, nel bel mezzo della Magna Graecia, sorge, lussureggiante, Partenope. Sirena di incontrastata bellezza, a Parthenope, il cui termine in greco antico significa “vergine”, secondo il mito, si ascrive la fondazione di Napoli. Numerose leggende si addensano attorno alla storia di questa fanciulla; v’è chi narra che fu disdegnata da Ulisse e, non tollerando mai il rifiuto dell’eroe acheo, si uccise, trasformandosi nella sublime penisola. Fonti alternative raccontano che Cupido non esitò a scoccare la freccia dell’amore che avrebbe fatto innamorare la sirena e un giovane di nome Vesuvio. Ma Zeus, invaghitosi di Parthenope, la disgiunse per sempre dal ragazzo, tramutando lui in un vulcano. Ella, che non poteva sopportare la lontananza, si suicidò e assunse la magnificente forma dell’isolotto di Megaride, che si erge proprio di fronte alla montagna.

Nelle “Leggende napoletane” di Matilde Serao, Parthenope, greca di nascita, ama follemente Cimone, nonostante l’ostilità del padre che l’aveva promessa in sposa ad un altro uomo. I due amanti fuggono via, recandosi proprio nelle terre che ancora portano il nome della ragazza, per omaggiarla sempiternamente della sua protezione.

Eppure, la rocca di Parthenope fu ben presto dissipata dall’ascia tagliente della storia, che spalancò le proprie braccia a Neapolis (in greco “nuova città”), relegando al ruolo di periferia la vecchia città, ormai con il nome di “Palepolis” (dal greco, per l’appunto, “vecchia città”).

Irrompe, tra le fitte trame della storia e dei miti che ammantano i luoghi campani, il panellenismo, che nel corso del tempo ha assorbito anche l’arte, le abitudini e immancabilmente il linguaggio, che ancora oggi ricalca icasticamente le origini greche.

Nel dialetto napoletano, oggi consacrato come patrimonio dell’Unesco, non si può far a meno di porre in rilievo l’etimologia di termini come “pazziare”, che riproduce fedelmente il suono del verbo παίζω (paizo), il cui significato è “giocare, scherzare”; “nzallanuto”, che deriva dal termine σεληνιάω (seleniào), letteralmente: essere lunatico: “nzallanuto” lo si dice di chi è svampito e ha la testa tra le nuvole.

Per non dimenticare “cantèro”, partorito da κάνθαρος (kàntharos), con cui si soleva indicare una bacinella a forma di vaso; “crisòmmola”, composto da χρυσός (krusòs) che si traduce con “oro” e μῆλον (mèlon), “frutto”, e quindi “frutto d’oro”, la cui traduzione indica il frutto dell’albicocca; “accattare”, che foneticamente rimanda a κτάομαι (ktàomai), letteralmente “acquistare”; “putèca”, la cui scaturigine è ἀποθήκη (apothèke) per designare una farmacia, sebbene ora indichi una bottega o un negozio, più precisamente la classica salumeria.

O ancora “ciofèca”, la cui provenienza è da attribuirsi a κωφός (kofòs), letteralmente “sgradevole”; “pacchero”, costituito da πᾶς (pàs), tutto, e χείρ (chèir), mano, conseguenzialmente “tutta la mano”, onde illustrare un forte schiaffo; “pucchiacca”, espressione che nasce dall’unione di πῦρ (pùr), fuoco e κοῖλος (koilos), antro, ergo “antro di fuoco”; “piglià per”, il cui significato letterale è “prender fuoco” e la cui scaturigine è da rintracciarsi proprio nell’anzidetto πῦρ (pùr).

Ed infine, non si può non menzionare “rafaniello”, la cui genesi si deve al verbo ῥαφανιδόω (rafanidòo), utilizzato per segnalare una pratica con cui si era soliti punire chi si fosse macchiato del peccato dell’adulterio. Infatti, alla suddetta voce, il vocabolario riporta propriamente: “infilare un ravanello nell’ano”. Chiunque fosse colto in flagrante nel tradire la propria consorte veniva pubblicamente umiliato proprio con questa penitenza.

Ma anche la lingua latina è compenetrata nelle fonde radici del nostro gergo dialettale: la parola “auciello” non può che rimandare all’avicellum, il cui significato è proprio quello di uccello; “petrusino”, che segue le tracce di petroselinum, prezzemolo; “artèteca”, che rinviene il suo principio in arthritica, con cui inizialmente si voleva denotare l’artrite, ma in seguito il vocabolo fu adoperato segnalare una persona iperattiva; “intrasatta”, deducibile dall’espressione antica “intra acta”, letteralmente “tra le azioni”; il goliardico “chiavica”, che non può che derivare da cloaca, l’impianto fognario realizzato nell’antica Roma; e per concludere “lota”, la cui etimologia si rinviene in lutum, tradotto come sozzura, essere abietto.

Queste le istrioniche derivazioni di alcuni soltanto tra i termini che costellano il nostro idioma, che atavicamente custodisce intatto il superbo splendore dell’antica Μεγάλη Ἑλλάς, (Megálē Hellás), Magna Graecia.

Molteplici, infatti, sono state le ulteriori influenze sulla metropoli – e sulla lingua – partenopea: per citarne solo alcune, si pensi agli Svevi, agli Angioni, agli Ottomani, agli Spagnoli che occuparono la città di Napoli e la Campania durante l’intero Medioevo ed anche in seguito, nell’età moderna.

Eppure, ciononostante, il dialetto napoletano si rafforzò, si arricchì ancor di più, assurgendo a idioma ufficiale del Regno di Napoli, nel 1442, grazie ad Alfonso V d’Aragona: del resto, è notorio l’inveterato ed ancestrale legale che unisce i popoli del Mediterraneo, in particolare gli spagnoli ed i napoletani.

Con l’incedere incessante della storia, la lingua partenopea perse la sua connotazione di idioma ufficiale, soprattutto con l’insediarsi del Regno d’Italia. Eppure è innegabile che, ancora oggi, dopo quasi ben centosessant’anni, il dialetto napoletano sia capillarmente parlato, che non abbia perso nemmeno un lembo della sua congenita magnificenza, consacrando sempre, sull’altare della tradizione, l’origine greco-latina.

“La sua struttura fondamentale, ciò che si dice lo «spirito» della lingua è rimasto legato fortemente ai secoli classici della grecità e della latinità. Di qui le implicazioni del carattere, del costume, della spicciola morale del popolo; di qui quel sapore «antico» nell’intonazione e nei riflessi del linguaggio. La maggioranza degli étimi tocca al greco e al latino. La stessa andatura musicale del napoletano appartiene al greco antico o al dialetto dorico «per le vocali più aperte, le voci pronunciate con maggiore espressione, le consonanti battute con maggiore impulsione». Gli spiriti dell’antichità, insomma, folleggiavano freschi e sapidi nella gran parte delle parole napoletane.”

Giovanni Artieri a proposito del dialetto napoletano.

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