Mysterious Skin: sotto la pelle

Tempo di lettura: 9 minuti

Pelle misteriosa. Involucro, in un certo qual senso. Mysterious Skin.

Il film di questa settimana non è il più semplice, da discutere. E ciò perché si incentra su uno dei temi più delicati e disturbanti delle perversioni umane, la pedofilia, e ciò che ne resta dopo la violenza.

Nelle liste dei film sulla pedofilia, Mysterious Skin si trova spesso accompagnato da nomi più celebri quale Sleepers di Levinson, capolavoro del 1996 il cui cast (Brad Pitt, Kevin Beacon, Robert de Niro) ha certo contribuito al successo. È del 1996, Sleepers. È uscito nelle sale cinematografiche mentre nelle librerie iniziavano a comparire le copie del “Mysterious Skin” di Scott Heim romanzo da cui, otto anni dopo, Gregg Araki avrebbe tratto il film.

Parlano entrambi di pedofilia, Sleepers e Mysterious Skin, dal lato delle vittime. Raccontano, in modi diversi per ciascuno dei loro personaggi, il modo in cui il trauma viene interiorizzato e resta lì, per anni, sotto la pelle.

Gregg Araki tra i due interpreti di Mysterious Skin, Brady Cobert e Joseph Gordon-Levitt

Sleepers si estende su un piano temporale molto più ampio di quello di Mysterious Skin: racconta il periodo della violenza, l’adolescenza, e poi fa un salto di diversi anni, in cui i protagonisti, più maturi, fanno i conti non tanto con l’elaborazione del trauma, ma con la conclusione – tardiva, sanguinosa e difficile – dell’evento del passato. Si chiama in causa la giustizia umana, ma si tratta di una giustizia amara, falsata, costruita su menzogne per portare alla luce le menzogne. La vita dei quattro protagonisti non si redime, con la fine del processo, e sembra far emergere una dolorosa domanda: se la giustizia non può esorcizzare il male, cosa può farlo? Se l’amicizia non può esorcizzare il trauma, come si fa a sopravvivere?

Mysterious Skin non corre tanto lontano, non racconta di cosa ne sarà dei suoi soggetti, non cerca né chiama in causa la giustizia: si concentra sull’elaborazione, o sul tentativo di evitarla. I due protagonisti – Neil e Brian – non sono amici, non comunicano se non alla fine del film. Ma il tema dell’amicizia è significativo: ricorre fortemente nel rapporto tra Neil, Wendy ed Eric. Un gruppo bene assortito e male equipaggiato di fronte a un mondo che non perdona “i diversi”, i “fuori casta” e i “freaks”, qualunque cosa queste parole significhino.

Neil è consapevole della propria omosessualità, e la vive attraverso rapporti con uomini molto più maturi, tramite prestazioni per cui si fa pagare. Quando Wendy si trasferisce a New York, Neil la segue.

Brian invece è solitario. Ha una strana fissazione: è convinto di essere stato rapito dagli alieni, dopo una partita di baseball, quando era un ragazzino. Cerca le prove di questa vicenda in maniera attenta, dedicata, compulsiva. È proprio cercando di sbrogliare la matassa del ricordo del suo rapimento che Brian arriva a Neil, dopo un sogno in cui rivive la presenza di Neil accanto a sé. La ricerca di Neil – nel frattempo a New York – lo conduce a instaurare una salda, delicata amicizia con Eric, rimasto solo nella cittadina dopo la partenza di Wendy e Neil.

È la Vigilia di Natale, quando Neil conduce Brian nella casa che era stata del loro stupratore, il coach della loro squadra di baseball. Hanno diciannove anni, adesso. Nineteen, l’ultimo di quei numeri che delimita la fase della vita che è quella di teenager: per iniziare davvero la vita adulta, sia Neil che Brian hanno la necessità di tirare le somme, di confrontarsi con la violenza che ha influenzato la loro vita da quando avevano otto anni fino a quel momento ed elaborarla, in qualche modo.

Quando Neil chiede a Brian perché lo ha cercato, Brian non parla più di alieni o rapimenti. Dice semplicemente: “Sono stanco”.

[Il meccanismo di protezione di Neil]

Nel momento della verità, del racconto della vicenda traumatica a Brian, Neil è estremamente lucido. Il suo racconto, come quasi tutte le descrizioni che abbiamo ascoltato dalla sua voce fino a quel momento, è clinico. Mentre Brian si è protetto dalla realtà traumatica costruendo una storia alternativa, Neil lo ha fatto rifiutando tenacemente il ruolo della vittima.

In un film la cui visione non è facile, sono due le scene estremamente disturbanti: la prima è il lungo flashback iniziale di Neil e del suo rapporto con il coach. Il racconto di Neil si sovrappone alle immagini della sua infanzia. Lo spettatore si trova di fronte a un bambino di otto anni che sembra già sapere molto sul sesso, sull’amore, sull’attrazione fisica, sull’orientamento sessuale. L’accostamento del volto del bambino e del resoconto crudo della voce che parla in prima persona è devastante e innaturale, ma il momento in cui lo spettatore realizza questa sfasatura è solo più tardi, quando Neil rievoca il coach idealizzato, e il loro sentimento di amore condiviso a Wendy, che dice la cosa più semplice, la più corretta, quella che Neil rifiuta, perché accettarla significherebbe accettare il ruolo di vittima: “Avevi solo otto anni”.

Questo ci porta alla seconda (ordinale cronologicamente inteso) scena più disturbante del film: la brutale violenza subita da Neil a New York, la notte prima del suo rientro. È una violenza pura, questa volta. Talmente inequivocabile, completamente priva di manipolazione mentale, che è impossibile sottrarsi alla consapevolezza di esserne la vittima. Neil parla per quasi tutto il film, la sua voce è un accompagnamento costante. Tranne che in quel caso. Tranne nel momento del rientro a casa, ancora insanguinato e scosso. Unico momento in tutto il film, Neil piange, sigillando il momento in cui si realizza la propria presa di consapevolezza.

[Il giallo e il blu]

I colori ricoprono un ruolo fondamentale per la comprensione dell’opera di Araki. Nella scena appena menzionata, Neil si copre il viso con un panno, forse una maglietta, raffigurante un disegno giallo e grigio. Il giallo è un colore ricorrente sin dal flashback iniziale: la luce gialla dell’appartamento, il pouf giallo, il colore dei capelli e della barba del coach, i suoi indumenti quando altre persone sono intorno. Ma anche i colori delle case, delle lenzuola di Brian, degli arredi, il colore del luogo sicuro.

Il grigio è il colore della maglia della squadra di baseball in cui Neil e Brian giocano. Tutti gli indumenti che il Neil bambino indossa sono grigi, così come quelli del coach quando sono da soli, in un pendant a cui si fa caso solo in un secondo momento, il suggerimento sottile di una forma di manipolazione.

L’altro colore ricorrente è il blu, che si ritrova in quasi tutte le scene riguardanti direttamente la violenza, avvolte in una luce fotografica blu. La stessa luce che Brian interpreta come il faro di un’astronave aliena. Il personaggio di Neil ha gli occhi intensamente blu – una decisione non casuale, considerando che l’attore Joseph Gordon-Levitt ha naturalmente gli occhi scuri. È come se Araki volesse comunicare un filo continuo, che intreccia il passato alla mente di Neil: sempre parlando con Wendy, Neil confessa che “ciò che è accaduto quella estate è una parte importante di me”.

Giallo e Blu sono colori costanti in tutto il film. Il colore del sole e quello della notte, della luce e del buio, il più caldo e il più freddo. Il colore delle cose evidenti e quello delle cose nascoste. Giallo e blu sono anche colori opposti dello spettro cromatico, che si mettono in risalto a vicenda, ma non si conciliano, sottolineando il distacco, lo straniamento.

[Il ruolo di Eric]

Il coach, i partner di Neil e approdando al padre di Brian, sembra che Araki voglia privare i suoi protagonisti di figure maschili di riferimento. Le figure rassicuranti sono sempre femminili: le due madri affettuose, la migliore amica Wendy e la dolce sorella di Brian. Persino un personaggio secondario come la bibliotecaria, che parla cordialmente con Brian, non poteva che essere donna.

Unica eccezione è Eric, l’amico in comune di Neil e Brian. Eric si dimostra per entrambi un amico leale, generoso, pronto a offrire il suo supporto (come quando passa a riprendere Neil dopo uno dei suoi incontri; o quando si affianca, silenziosamente, a Brian durante il confronto di quest’ultimo con il padre). Intuisce, tramite delle foto e una registrazione audio conservata da Neil, il passato, ma non ne fa menzione.

È normale che sia lui il tramite tra i due personaggi così opposti dei due protagonisti, lui a condurre – letteralmente – Neil e Brian al luogo dove avverrà la rivelazione del trauma. Durante questo tragitto, i suoi capelli che cambiano costantemente colore fanno sfoggio di ciocche gialle e ciocche blu, riproponendo i colori cardine dell’intera fotografia.

I suoi look sono estremamente stravaganti, marcando il contrasto con lo stile soft di Brian, ma anche con quello trasandato di Neil. È educato (persino con lo sconosciuto che tenta di approcciare lui e Neil a un bar), è affettuoso (e lo dimostra soprattutto con le madri di Neil e Brian), accetta e ascolta i consigli di Wendy, si preoccupa in maniera quasi materna. Eric è l’unica figura maschile positiva del film, ma può esserlo solo in quanto non incarna – anzi, rifugge – lo stereotipo della mascolinità dominante, quella ostentata, al contrario, dagli altri uomini del film.

Mysterious Skin – fotogrammi dal film

La sua controparte è Avalyn, una figura femminile supportiva ma non positiva, che spinge Brian a cercare Neil, ma viene allontanata dopo aver tentato con lui un approccio. Come Eric è un uomo non inquadrato nello stereotipo maschile, Avalyn – nella sua ossessione per gli alieni – non rientra nello stereotipo femminile. Sembra affascinata dai particolari crudi, come il vitello trovato morto; non ha interesse per il suo aspetto; la forma del suo supporto è essenzialmente egoistica; non si affianca a Brian, ma cerca quasi di sostituirsi a lui, e lo fa con una prepotenza mascherata dal suo aspetto docile. È un personaggio necessario, per la crescita di Brian, ma deve essere eliminato dalla sua vita affinché questa crescita si realizzi.

[L’impossibilità di far parte del mondo: alieni e creature alate]

Mysterious Skin: anche la ragione del titolo è qualcosa su cui soffermarsi. Può riferirsi agli alieni che ossessionano i pensieri di Brian, quegli esseri misteriosi, venuti da lontano, stranieri ed estranei. Certo, per Brian il rapimento da parte degli alieni è la versione alternativa e protettiva di quelle ore di abuso, di cui non ricorda nulla quando la sorella lo ritrova, confuso e con il naso sanguinante – un altro particolare ricorrente nel film – nella loro cantina. Ma c’è un’altra ragione. Brian è così ossessionato dagli alieni perché è lui stesso un alieno. Si sente fuori dal mondo, un vagabondo in una terra straniera, estranea, un essere catapultato su un pianeta di cui non conosce né le regole né i suoi abitanti. Si muove e parla con cautela, durante tutto il film. La sua ossessione di provare l’esistenza degli alieni è lo specchio del bisogno di provare la propria, di esistenza.

Anche Neil fa un riferimento a delle misteriose creature alate, quando, alla fine del film, abbracciato a Brian, racconta il suo desiderio di diventare due angeli, librarsi in aria, e scomparire. È una forma di redenzione di sé stessi: l’alieno si trasforma in un angelo. Una figura che resta un mistero, ma che non è legata a un immaginario di diffidenza bensì di soccorso.

Ma Brian e Neil sono alieni nei confronti tanto della società quanto di sé stessi: si guardano dall’esterno dei loro corpi e non dentro di sè. La loro pelle, in questo modo, diventa l’involucro di un mistero indecifrabile. Il momento in cui Neil racconta all’amica Wendy di essersi sentito, per la prima volta, disturbato da uno dei suoi rapporti con un uomo quasi anziano – probabilmente malato terminale di AIDS – è il momento in cui, per la prima volta, la distanza tra un Neil che agisce e un Neil che guarda (e sente) sé stesso si accorcia. Quella dell’incontro con questo uomo, in una stanza dove domina un dettaglio di Vermeer, è l’unica scena, nel tripudio di blu e di giallo, in cui prevale invece un bianco ottico.

Mysterious Skin – fotogramma dal film

È anche il momento in cui inizia a realizzarsi la consapevolezza di Neil come essere umano non esistente in relazione a un’altra persona – il coach – che, idealizzato e ossessionante, è il motivo della ricerca costante di rivivere sensazioni passate attraverso incontri con altri uomini. Araki suggerisce che persino la prostituzione di Neil abbia origine nella sua esperienza con il coach, che era abituato a fargli guadagnare cinque dollari quando si faceva un “gioco di sesso spinto”.

Questo momento di percezione nella stanza del Vermeer, insieme a quello di poco successivo della violenza da adulto, sono causalmente i momenti che conducono Neil alla vecchia casa del coach. Sono i momenti in cui il meccanismo di protezione di Neil di rifiuto della parte della vittima inizia a disgregarsi, allo stesso modo degli alieni di Brian: è il percorso di ri-scoperta della verità.

Alla fine del film, se il pianto di Brian è straziato, le parole – pensate, dal momento che non riesce a parlare – di Neil sono assordanti. Neil vorrebbe dire a Brian che “andrà tutto bene”, ma sa di non poterlo dire con sincerità. Il suo desiderio, per sé e per l’altro, è solo quello di scomparire nella notte, mentre i canti natalizi fuori dalla porta celebrano un momento di venuta al mondo.

[Infine]

Questo film è tanto più difficile quanto ogni suo aspetto – la regia, la scenografia, la costumistica, la fotografia – è una chiave per la lettura della vicenda. Come in un puzzle, tutto concorre a creare un’immagine, che tuttavia non può essere vista se non alla fine, quando ogni pezzo è al proprio posto, provato e riprovato in diverse posizioni fino a trovare quella giusta.

Nello scrivere questo lungo articolo, sono tornata più volte a una o un’altra scena. E ogni volta ho captato qualcosa di nuovo, un nuovo simbolismo, che meriterebbe di essere considerato in un’analisi. Ma siamo già ben oltre le lunghezze standard che un giornalista consiglierebbe. Non mi resta che consigliarvi la visione, e darvi appuntamento a un nuovo film, la prossima settimana.

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