Covid-19: il tempo sospeso

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Erano giorni in cui gli alberi si coloravano di sfumature sgargianti, vivide, sullo sfondo di una primavera che timidamente era sull’uscio del tempo, ma tribolava per un suo trionfante ingresso.

Erano giorni meravigliosamente febbrili, in cui tutto si avvicendava alla velocità della luce, in cui le pagine dei giornali, oltre alle consuete notizie di politica, economia, riportavano gli annunci di spettacoli teatrali, di film in uscita, di “cose belle” in divenire.

Erano giorni frenetici, sì, ma di quella frenesia catalizzatrice che estirpa il sonno, lo annichilisce, divelle ogni postumo residuo di noia, ti istiga alla vita, straripante di sublime irrequietezza, di affannoso fervore, di sogni sterminati mai realizzati, di utopie che, magia delle magie, forse potevano persino esaudirsi.

Erano giorni in cui ci si sfiorava, delicatamente o con tutto l’ardore di cui si necessitava, in cui forse non si elargivano sontuose manifestazioni d’affetto, ma in cui se ci si abbracciava, se ognuno era accanto all’altro, se si era strettamente vicini, nessuno spasimo di angosciante preoccupazione, nessun attanagliante timore abitava le nostre coscienze.

Erano giorni in cui la quotidianità non aveva il sapore mellifluo di una superlativa felicità, perché era normale sedersi ad un tavolo a qualunque ora della sera e rimanere lì tutto il tempo che si desiderasse, era abitudine consolidata attardarsi per strada fino a notte fonda, era consuetudinario consacrare il proprio tempo al fulgido splendore della compagnia, scevri di intemperante inquietudine.

Ed ora sovrasta incontrastata quella sensazione in ragion della quale quelle stesse immagini, incastonatesi nella memoria come il ricordo più prezioso da conservare, appartengano a vite mai vissute, discendano da dimensioni spazio-temporali ormai inafferrabili, lontane, come uno spettatore che ammira l’autentica bellezza delle cose più semplici dalla platea di un teatro; ma il palco è irraggiungibile e chissà per quanto altro lo sarà.

La verità è che siamo in balia di un tempo sospeso, in estatica contemplazione, in estasiato visibilio di un passato che, più che mai, appare fagocitato dalla caliginosa foschia della lontananza, immobile nella sua impenetrabilità; come il più bello dei film che d’improvviso si interrompe, non c’è verso di riparare il nastro e vederne la fine.

E dall’altro lato il futuro. Un futuro a cui si agogna bramosamente, che si dipinge come il più fiorente di tutti, in cui si traduce in realtà tutto ciò che per infinite volte è stato rimandato, procrastinato, posticipato, in attesa di giorni più felici. Un futuro che accentua e approfondisce quel che già gli è proprio: l’indeterminatezza, l’imprevedibilità, l’incertezza. Un futuro da cui si reclama il fior fiore della contentezza, oberato, sovraccaricato da rosee aspettative, che quasi sembra rifuggire dal proprio debito, che tarda a sopraggiungere, lasciandoci nel bel mezzo di un’oscurità fuligginosa.

È un futuro che impallidisce al cospetto di un dialogo con il presente, così dannatamente pretenzioso, perché è un presente che ha un disperato bisogno di una via d’uscita.

E neanche la pazienza più remissiva basta a mitigare questo turbinio di impulsi, a metà tra un ineludibile scoramento e pronostici traboccanti di ottimismo, sebbene assorbire questo tempo della sospensione, con il patimento che gli è implicito, è compito proprio della pazienza stessa.

Solo in questa accezione, essa può mostrarsi alleata di un’altra grande virtù: la speranza, il solo vento che può ravvivare l’aria stantia e ferma di questo tempo sospeso.

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