Eutanasia: un diritto negato da riconoscere subito

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“Di chi è il corpo? Della persona interessata, della sua cerchia familiare, di un Dio che l’ha donato, di una natura che lo vuole inviolabile, di un potere sociale che in mille modi se ne impadronisce, di un medico o di un magistrato che ne stabiliscono il destino?

Stefano Rodotà, La vita e le regole.Tra diritto e non diritto

Correva l’anno 2006, quando Stefano Rodotà, in uno dei suoi magistrali scritti, si poneva quest’interrogativo.

Corre l’anno 2021 – il modernissimo, avanzatissimo 2021 – e, ahinoi, ancora alcuna risposta soddisfacente è soggiunta. Eppure, a legger di soppiatto tra le righe, il giurista calabrese forse c’aveva visto bene: “un potere sociale che in mille modi se ne impadronisce”.

Questo filantropico, provvidenziale, altruista potere sociale, che incede parallelamente alla legislazione e ai suoi intricati cavilli, avrebbe impedito di “staccare la spina” a dei corpi, ormai irreversibilmente malati, imperversando nell’infliggere loro la più martoriante delle sofferenze: continuare ad esistere biologicamente, non vivendo biograficamente. Si ricordino gli eclatanti casi di Eluana Englaro o Fabiano Antoniani – meglio noto come dj Fabo: il potere sociale tutto, in ottemperanza ad un non ben precisato dovere morale dalla dubbia rettitudine, avrebbe dovuto sbarrare il passo al tentativo di una morte procurata, in altri termini eutanasia. Per fortuna, in entrambe le circostanze, non è stato così.

Eppure esiste nel nostro ordinamento giuridico un articolo, persino dichiarato contra Costitutionem, che continua a galleggiare indisturbato, perché il nostro indefesso legislatore è sempre, perennemente “in tutt’altre faccende affaccendato”.

Con sentenza del 22 novembre 2019, la Corte costituzionale ha censurato l’art. 580 del codice penale, dichiarandone l’illegittimità costituzionale, “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.

Tuttavia, dopo ben due anni, il Parlamento è ancora a braccia conserte, avviluppato nella sua solenne inerzia.

A dispetto di ciò, una sterminata mole di argomentazioni spiana la strada, affinché finalmente si compia tale miracolo: l’approvazione di un disegno di legge che legalizzi l’eutanasia.

Molteplici, caleidoscopiche, non sempre concordanti tra loro sono le definizioni accalcantesi sulla parola “eutanasia”, eppure tutte tendenti a declamare che si è al cospetto di una richiesta cosciente e libera da parte di un soggetto malato, espressione del principio personalista e della libera autodeterminazione del soggetto stesso che ne necessita, accompagnata dal raggiungimento di uno stato di malattia talmente grave da essere qualificato come irreversibile e la cui immediata conseguenza si riflette nel fatto che il vivere non sia più accettabile dalla – e solo dalla – persona che abbisogna della pratica eutanasica.

Alla base della domanda di eutanasia non v’è altro che la ricerca di una “morte benefica procurata da altri a chi sia affetto da malattia inguaribile a esito letale, su richiesta valida di questi, per porre fine ad uno stato di sofferenza considerato dal paziente inutile ed intollerabile[1]”.

Ciò nondimeno, v’è chi si ostina a porre l’accento sul discrimen intercorrente tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva, reputando come illegittima soltanto la prima delle due: ciò avviene, dal momento che l’eutanasia attiva postula un facere, ossia l’attuazione della richiesta di condotta commissiva da parte del terzo (il medico), volta a cagionare direttamente il decesso dell’ammalato. Al contrario, nel caso dell’eutanasia passiva, l’art. 1 comma 5 della legge 219/2017 dispone la piena tutela del diritto dell’indigente al rifiuto delle cure, sebbene la modalità applicativa, da parte del medico, consista in un non facere. In altri termini, la differenza tra i due modus operandi ruota intorno al fondamentale perno del nesso causale, della concatenazione causa-effetto presente nella prima fattispecie, ma non nella seconda. 

Ebbene, tangibilmente si è innanzi ad un vero e proprio vuoto di tutela nei confronti di tutti coloro che, pur patendo eguali sofferenze a causa di patologie irreversibili, sono privi dell’autonoma facoltà di scegliere di porre fine alla propria esistenza in maniera attiva. Si innesca, cioè, una patente disuguaglianza sostanziale, laddove si contempla una medesima fattispecie, seppur declinata in modo difforme, talvolta punibile e talvolta no.

Ecco perché la Corte costituzionale, già nel lontano 2019, ha sollevato un doveroso monito nei confronti del legislatore, dal momento che “i vuoti di disciplina, pure in sé variamente colmabili, rischiano di risolversi a loro volta in una menomata protezione di diritti fondamentali, suscettibile anch’essa di protrarsi nel tempo, nel perdurare dell’inerzia legislativa”.

Perché il diritto alla vita, proprio in quanto diritto fondamentale, è relativo, id est sempre bilanciabile con gli altri diritti.

È d’uopo trascendere i limiti occlusi di chi polarizza in due estremi opposti il diritto alla vita ed il diritto alla morte; al contrario, il diritto a morire con dignità non è altro che “il diritto a vivere anche le fasi terminali dell’esistenza in condizioni e con modalità che non arrechino offesa alla dignità delle persone. Non ci si riferisce alla rivendicazione di un nuovo diritto, ma alla rivendicazione del rispetto di un’intrinseca dimensione dello stesso diritto di vivere con dignità tutte le fasi dell’esistenza umana[2]”. Tant’è vero che, per dirla con le parole di Dworkin, l’aiuto a suicidarsi non equivale alla rinuncia del proprio diritto alla vita, ma alla rinuncia dell’esercizio di tale diritto[3].

Persino la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel remoto 2011, asseriva che “il diritto di un individuo di decidere in che modo e in che momento mettere fine alla propria vita, purché tale volontà e il conseguente agire siano assolutamente liberi, deve ritenersi ricompreso nel diritto al rispetto della propria vita privata”.

E chi superbamente professa che la pratica eutanasica sia incostituzionale probabilmente ignora che i principi costituzionali dai quali può farsi scaturire il diritto di scegliere in che modo e quando porre fine alla propria esistenza sono intrinsecamente intessuti nell’ordito normativo costituzionale.

Proprio l’art. 32 della Costituzione, letto a contrariis, permette un’interpretazione incisiva del principio personalista, dell’autodeterminazione del paziente e del suo diritto alla libertà personale ex art. 13 della Costituzione e, quindi, della sua libertà di coscienza. Ancor di più, se si guarda all’art. 19 della Carta costituzionale, che proclama a gran voce di agire secondo il proprio credo – laico, si intende.

Sui pubblici poteri ricade l’obbligo di proteggere la vita dagli “attacchi” degli altri, e non certo il disconoscimento dell’autonomia e della dignità di sé. Ergo, l’atto eutanasico non è antigiuridico, dal momento che è mosso non dalla volontà di uccidere un altro uomo, bensì dall’intenzione di dar seguito alla richiesta di una morte indolore.

L’eutanasia non è “una scelta fra la vita e la morte, né una scelta della morte contro la vita, ma una scelta tra due modi di morire[4]”: un aiuto apprestato non alla morte, ma nella morte[5].

Non è fortuito che già ben quattro secoli fa, il filosofo Francesco Bacone scriveva che “dovere del medico non sia solo di ristabilire la salute, ma anche di alleviare sofferenze e dolori, e non solo quando tale sollievo può condurre alla guarigione, ma anche quando può servire ad un sereno e facile trapasso[6]”.

È ancora maggiormente manifesto come in tale vicenda, legislativa e non, il ruolo fondamentale debba essere svolto dal Parlamento, essendo lucidamente consapevoli del fatto che la piena tutela della vita si garantisce solo assicurando che ogni individuo possa esprimersi attraverso la propria autodeterminazione, seppur nel rispetto di coriacei limiti.

Ebbene, urge impellentemente riconoscere il “diritto ad una morte dignitosa”, che si trasfonde proprio nella stessa libertà della morte “intesa come destino e sua metamorfosi in qualità di vita, oggettivamente valutabile”.

Che il Parlamento cessi di cullarsi nell’inquietante sonno della ragione.


[1] N. Neri, Eutanasia: le ragioni del sì.

[2] N. Neri, ibidem.

[3] G. Dworkin, Harmless wrongdoing.

[4] J. Pohier, La morte opportuna. I diritti dei viventi sulla fine della loro vita.

[5] S. Seminara.

[6] F. Bacone, La dignità e il progresso del sapere divino ed umano.

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