Burning: in Corea tra granai incendiati e conflitto di classe

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Hallyu. Flusso coreano. In alfabeto hangul, 한류. Si tratta del nome tecnico con cui viene identificato quel fenomeno di proliferazione di prodotti (trasversali su una moltitudine di settori) made-in-Corea e del conseguente interesse che tali prodotti (k-pop, k-drama, k-skincare, k-fashion…) carburano nella mente dei fruitori rispetto alla patria di partenza. Un flusso, appunto, dove si esporta il prodotto e si importa un interesse e una curiosità degli stranieri verso la piccola, combattiva penisola incastrata tra Russia e Cina – con tutto l’apparato di investimenti e profitti che sono la misura del successo di una strategia.

La Corea, nel momento in cui sto scrivendo, è un trend inarrestabile.

Qualche anno fa, i nomi dei cineasti coreani erano pochi e noti a pochi, principalmente i cultori del genere thriller e del noir. Kim Kiduk con le sue atmosfere rarefatte e angosciose, o il bravissimo Park Chanwook con le sue storie intricate, senza sconti. Autori di bravura e di rilievo per cui Cannes e Venezia impazzivano, e che Hollywood cercava inevitabilmente di incorporare nei propri canoni (chi potrebbe dimenticare il terribile remake di Old Boy? O il riuscito esperimento di Stoker?).

Poi, nel 2019, una svolta: Parasite di Bong Joonho vince – con voto unanime – il Miglior Film alla cerimonia degli Oscar 2020. Primo film sudcoreano: non era mai successo. Sulla scia del successo di Parasite, pellicola di oggettiva bellezza, iniziano ad emergere e a venir riscoperti altri autori e precedenti lavori. E se la scuola cinematografica coreana può vantare una predilezione e un’eccellenza in un preciso genere, beh, si torna sempre lì: il thriller e il noir.

Oggi non vi propongo Bong Joonho, né Kim Kiduk, né Park Chanwook e nemmeno Hong Sangsoo. Oggi vi propongo Lee Changdong. E il film di questa settimana è il suo Burning (버닝).

Burning prende spunto – ma nemmeno troppo – da un racconto del giapponese Haruki Murakami, Granai Incendiati. Murakami, a onor del vero, non è un autore troppo fortunato per quanto riguarda le trasposizioni cinematografiche, e i pochi tentativi di trarre sceneggiature dai suoi romanzi hanno portato a risultati tendenzialmente mediocri. Burning, tratto liberamente da questo racconto di otto pagine scarse, è una eccezione. I personaggi da ricordare sono tre: il protagonista, Jongsu, è un ragazzo originario della zona rurale di Paju (quasi al confine con il Nord Corea), che vive di lavoretti tra Paju e Seoul, benchè racconti di voler diventare scrittore. Un giorno viene riconosciuto per strada da una ragazza che era stata una sua vicina di casa, la giovane e spigliata Haemi (secondo personaggio da ricordare) la quale, essendo in partenza per un viaggio in Africa, gli chiede di badare al proprio gatto Boil. I due hanno un incontro sessuale, Haemi parte, e Jongsu mantiene la promessa, prendendosi cura di un gatto che tuttavia non si fa mai vedere. Quando torna dall’Africa, Haemi è accompagnata da Ben (il terzo personaggio da ricordare). Ben è gentile, ha gusti raffinati, vive in uno dei quartieri più eleganti e costosi di Seoul. È cortese e colto, non ostenta il suo benessere, non sembra fare caso alla differenza sociale che intercorre tra lui e gli altri due. Differenza che è invece sentita da Jongsu: quando la coppia improvvisa una visita mentre lui si trova nella vecchia casa del padre a Paju, la sua reazione è di imbarazzo. In questa serata a metà tra il reale e il metafisico, Ben confessa a Jongsu un suo hobby: incendiare le vecchie serre abbandonate nelle campagne del paese. Confessa anche di aver scelto la prossima serra, in una località vicina a quella della casa di Paju di Jongsu. Da lì passa del tempo. Jongsu sviluppa l’abitudine di andare a correre e controllare lo stato delle serre nei dintorni, mentre Haemi svanisce misteriosamente. Quando Jongsu inizia a cercarla, scopre che anche Ben non ne sa niente: adesso frequenta un’altra ragazza, anch’essa di un ceto sociale inferiore, e ha adottato un gatto, che sembra rispondere al nome di Boil. Il nome del gatto è l’ultima parola che Jongsu dirà in tutto il film.

L’ultima cosa che farà prima dei titoli di coda, invece, è guidare nudo via dal luogo dove la costosa macchina e il corpo di Ben stanno bruciando insieme ai suoi vestiti.

Da sinistra: Jongsu, Haemi e Ben nella casa di Jongsu – fotogramma dal film

Esiste sempre questa nota comune all’interno dei grandi, tragici film dei migliori autori coreani: un tema ricorrente, che è appunto quello del conflitto di classe. In Parasite il nucleo familiare dei benestanti Park viene ‘attaccato’ da quello degli indigenti Kim: si percepisce attivamente questa azione di invasione, questo contrasto senza maschera di amicizia, la distanza tra i ricchi resi ingenui dalla mancanza di preoccupazione e coloro che sono i loro impiegati o sottoposti, resi scaltri e crudeli dall’istinto di sopravvivenza. Chiunque, in questa storia tragica, può essere letto come il parassita del titolo. Bong Joonho ha questa capacità di suggerire, anche nei dettagli minori, l’escalation di violenza dietro l’angolo. Quando la violenza esplode, è attesa. Lee Changdong fa l’esatto opposto: lui sospende completamente il tempo, azzera l’aspettativa. Bong lascia intendere che qualcosa sta per succedere, che le gocce si stanno accumulando nel vaso destinato a traboccare, mentre Lee lascia che gli eventi si susseguano senza che lo spettatore capisca a dove stiano conducendo.

Lee Changdong non offre alcuna risposta, forse perché risposte non ce ne sono o forse perché non c’è alcuna domanda. Dove sia finita Haemi non si saprà. Se Ben c’entri o meno con questa sparizione non si saprà. Ma non è quello il punto, non lo è mai stato.

L’omicidio di Ben si svolge senza una singola parola da parte di Jongsu. Non è il più efferato, tra i delitti cinematografici, ma è carico di un rancore e di un senso di innecessarietà che sconvolge. E sconvolge perché, al tempo stesso, non sembra un crimine nato dal capriccio, ma da un senso intrinseco e ineluttabile del rimettere in ordine. C’è un lungo momento, prima del colpo di grazia, che non è sottolineato registicamente ma si integra nel piano sequenza in modo che allo spettatore sembri di essere lì, in modo che non possa fare a meno di agganciare il proprio allo lo sguardo di Ben che si aggancia a quello, che non vediamo, di Jongsu.

La maniera in cui questa scena di violenza è girata è intimistica, delicata al punto tale da cancellare il senso stesso di violenza. Nel freddo panorama della campagna coreana coperta di neve, la morte di un uomo non resta altro che un dato di fatto.

Mentre viene accoltellato, Ben si aggrappa a Jongsu in quello che non è nulla di diverso da un abbraccio. Dopo quel momento, Ben diventa invisibile. Jongsu sistema il corpo nell’auto e non lo vedremo più. Tutto ciò che accade dopo è pervaso da un senso di solitudine. Senza Ben, senza Haemi, senza nemmeno il gatto Boil di cui prendersi cura, cosa rimane nella vita di Jongsu?

Un racconto di fantasmi

Uno dei commenti più centrati che ho letto su Burning è il seguente: un racconto di fantasmi senza fantasmi. Non riesco ad elaborare una descrizione più corretta. Burning, in una maniera che poco ha a che fare con il folklore, mette in scena una serie di spettri: i tre personaggi principali e gli altri, rarefatti, che vi sono intorno, e la forma intangibile di alcune emozioni tra cui il senso di solitudine, la violenza repressa fino all’ultimo, una risposta che sembra aleggiare, ma forse non esiste affatto.

In effetti, il destino di Jongsu sembra essere questo: diventare il fantasma della propria vita. Presente, eppure invisibile. Inserito in una società che non lo guarda e non lo vede, che al massimo ne avverte la presenza e la liquida con indifferenza. Il senso di solitudine che avvolge questo personaggio è radicato. Il momento in cui, alla notizia dell’arrivo di Haemi e Ben, Jongsu guarda la propria casa valutandone le condizioni è di una tenerezza esasperante, perché raffigura l’appiglio ancora esistente con il senso sociale: una dimensione dove lo sguardo, che sia su una casa o su una persona, significa essenzialmente un giudizio.

Tra Haemi scomparsa e Ben assassinato, il personaggio la cui esistenza è la più sospesa, più sfumata nella non esistenza, è proprio Jongsu. È anche il personaggio i cui fantasmi personali vengono messi più in rilievo: la figura della madre, andata via di casa e i cui vestiti rimasti sono stati bruciati dal padre e che poi ricompare dopo molti anni, acconsentendo di rivedere il figlio, ma sembra ed è una sconosciuta, non più una madre; la figura del padre, che non proferisce parola ma lo vediamo in un’aula di tribunale, sotto processo per un gesto di violenza nei confronti di alcuni vicini, di cui il suo avvocato esprime una “natura accidentale” palesemente smentita dalla versione ufficiale dei fatti. Persino Haemi è uno dei fantasmi di Jongsu, che popola i suoi sogni erotici e compare e scompare dalla sua vita in maniera continua, a volte fin troppo presente e reale, altre volte trasparente, come se non fosse del tutto un personaggio esistente.

Proprio Haemi, rispetto agli altri due, ha una forza vitale dirompente, fluida. Di tutto un film magnificamente girato, la scena più lirica è quando, nella vecchia casa di campagna del padre di Jongsu, lei balla da sola contro la luce del tramonto (è una lunga scena, esattamente al centro, nel cuore, del film). Haemi incarna un senso di precarietà che è proprio di una giovinezza vissuta come fine a sè stessa, curiosa, che è a casa in ogni luogo, che sia la Corea o l’Africa, un appartamento elegante o una squallida stanza in affitto, un ristorante economico di teokbokki o un bar sofisticato. Ben e Jongsu, nei loro status, sono immobili. Haemi invece è un mistero, non perché nasconda qualcosa, ma perché, al contrario, non nasconde nulla. Il suo personaggio è quello che ha subito meno modifiche, rispetto alla sua controparte in Murakami e questa traslazione dalla pagina scritta al film rimane in qualche modo letterale: Haemi è una delle classiche figure femminili murakamiane che ricordano le kitsune del paese d’origine dell’autore, sicure, a volte sfacciate, sempre estremamente dentro ed estremamente fuori dal loro tempo, non del tutto comprensibili, per niente prevedibili ma comunque perfettamente coerenti. Persino alcuni dei suoi dialoghi sono l’esatta traduzione del testo giapponese, come nel caso del racconto dell’esercizio di “sbucciare i mandarini”.

La danza di Haemi – fotogramma dal film

C’è una differenza, tuttavia, con il racconto di Murakami, e non è una differenza che attiene direttamente ad Haemi, quanto a ciò che Jongsu fa nei suoi confronti. Le donne di Murakami sono qualcosa di ulteriore, al di sopra di logiche, di leggi della fisica, vedono e si comportano in una maniera talmente “propria” da essere al di fuori di qualunque tipo di giudizio. Le ultime parole che Jongsu rivolge a Haemi sono un giudizio, e un giudizio crudele, fatto per ferire: “Perché ti spogli così facilmente di fronte agli uomini? È una cosa che fanno soltanto le puttane”. Poi, Haemi sparirà, con tutte le conseguenze della sua sparizione. Dall’inizio alla fine, è lei che conduce la vicenda.

Per quanto il personaggio centrale sia Jongsu, il personaggio nucleare, il motore dell’intero film è Haemi.

Uno sguardo su Ben

Arriviamo anche a Ben, per cui credo sia giusto spendere qualche parola. Tra i tre personaggi, Ben è quello più coperto dal mistero. Non sappiamo che lavoro faccia, non sappiamo da dove derivi il suo hobby di incendiare le serre, persino il nome occidentale, Ben, sembra stonare con quelli tradizionali di Haemi e Jongsu. Ha alcuni comportamenti ricorrenti, che vengono suggeriti nel parallelismo tra la sua relazione con la nuova ragazza e quella con Haemi. Conserva un beauty case ordinatissimo, in una delle scene finali lo vediamo truccare con attenzione la sua nuova ragazza. Conserva inoltre in un cassetto una serie di oggetti femminili, tra cui Jongsu troverà anche un orologio di Haemi. Rispetto ad Haemi, che mostra senza riserve le sue emozioni, e Jongsu che vediamo sorridere forse unicamente nella scena iniziale della cena con Haemi, Ben sorride spesso. Sembra indossare un sorriso come parte di sé, un sorriso che potrebbe essere di qualunque natura, un sorriso gentile o accondiscendete, ironico o persino di disprezzo. Noi, spettatori, non riusciamo a capirlo, perché è Jongsu che non riesce a capirlo.

La complicata interpretazione del film

A una visione molto rapida del film, sembrerebbe che il motivo dell’assassinio di Ben da parte di Jongsu sia un valido sospetto che ci sia lui dietro la sparizione di Haemi. Che la sua mania di bruciare le serre sia piuttosto l’indizio di una necessità di disfarsi di corpi e che Jongsu lo abbia capito. Personalmente, non riesco in alcun modo a convincermi che sia questa la lettura esatta. Senza dubbio è una lettura, ma non posso fare a meno di notare che ci sia una nota completamente stonata in questa interpretazione. Certo, mi trovo a fare i conti con Lee Changdong, che tra i registi coreani è forse quello che ha presentato i personaggi con le psicologie più complesse e per cui mi risulta estremamente difficile immaginare una scelta di questo tipo. Anzi, sono abbastanza sicura che il regista suggerisca l’esatto opposto in maniera esplicita, con le ultime parole di Ben che, avvicinandosi all’auto di Jongsu ignaro della fine imminente, chiede “dov’è Haemi? Mi avevi detto di aspettarvi qui”.

Un’altra interpretazione diffusa è che la storia vera si intrecci a una storia inventata, forse un libro che Jongsu sta scrivendo. Anche su questa lettura nutro qualche dubbio.

Secondo me – opinione personalissima – il senso della vicenda (e soprattutto della sua conclusione) deve essere ricercata in un altro modo. Torniamo al film: c’è qualcosa che bisogna esaminare, a mio avviso, per capirlo, e si tratta della nostra posizione di spettatori rispetto al film.

La telecamera di Lee fa un’operazione precisa, e funge da nostro occhio: i suoi movimenti sono lenti, ma continui; resta a livello dello sguardo umano; nel piano sequenza finale, soprattutto, si esaspera la sensazione di essere lì, di essere un occhio che osserva. Nel momento in cui Ben viene ucciso, noi siamo il terzo, invisibile ed ectoplasmatico personaggio nella campagna coreana coperta di neve.

L’omicidio di Ben – fotogramma dalle scene finali del film

Lee ci guida lo sguardo, e ce lo guida su due piani separati. Il primo è uno sguardo oggettivo, di passante invisibile per le strade di Seoul, o commensale a una delle tavolate di amici di Ben: Lee su questo piano non mostra niente di ulteriore rispetto a quello che un qualunque occhio potrebbe cogliere. Eppure, ogni tanto ci sposta su un secondo piano, che è quello del mondo interiore di Jongsu. È solo con Jongsu che viene compiuta questa operazione: con Haemi e Ben non accade, come ho accennato prima, loro restano – in maniera diversa – un mistero. Per Jongsu invece Lee ci porta nel suo mondo di sogni, tra i suoi ricordi, tra i suoi fantasmi, tra le sue visioni. Lo accompagniamo, osservandolo più da vicino.

Lo spiazzamento del suo gesto finale è sentito perché per noi il personaggio più comprensibile è Jongsu, eppure non riusciamo a capire il motivo della sua azione. Jongsu non la esprime, Lee non la esprime. Ma forse il punto centrale di questa interpretazione difficile è che non è affatto il motivo, il centro dell’omicidio. È l’atto di uccidere in sé. Senza altre costruzioni, senza scuse o raziocinio. Jongsu uccide, e non c’è altro da dire, è un dato di fatto. Qualunque motivo, o movente, è completamente al di fuori della azione, non ne ha mai fatto parte. I perché e i per come finiscono fuori dal discorso, fuori da ogni considerazione. A mio avviso, è questa la maniera giusta di guardare il film: senza alcuna risposta e senza alcuna domanda, osservando non visti.

Ps. Il mio amico Alberto mi ha fatto recentemente notare la natura del trailer che ha accompagnato l’uscita in occidente del film di Lee. Non lasciatevi ingannare dai toni da thriller manualistico del montaggio del trailer: questo è un film lento, silenzioso e forte, con lunghe scene e lunghe pause. Un film che scivola come il fiume Han tra campagne e metropoli, tra primavere e inverni, con i suoi fantasmi e i vostri pensieri.

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