Crisi della natalità: come l’immigrazione potrà contribuire a risollevare l’Italia dall’inverno demografico

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L’Italia il Paese più vecchio d’Europa e il secondo più vecchio al mondo dopo il Giappone. All’inizio del 2023, in base a quanto certificato dall’ISTAT, la vita media della popolazione ha raggiunto negli uomini l’età di 80,5 anni e nelle donne di 84,8 anni. Ma non è tutto: in Italia è in corso un calo demografico senza precedenti. Le culle si svuotano, la popolazione invecchia, le pensioni e la sanità rischiano di reggersi sulla ricchezza prodotta da una base sempre più ristretta di lavoratori e lavoratrici.

I dati del fenomeno
Nella crisi demografica in atto, il fattore più preoccupante è il rapporto tra natalità e mortalità: vi sono 7 neonati contro oltre 12 decessi ogni mille abitanti. Per la prima volta dall’Unità d’Italia, le nuove nascite sono inferiori a 400mila (392.598), mentre i morti sono 713 mila: escludendo il 2020 con il Covid-19, si tratta del nuovo record negativo dal dopoguerra ad oggi. Per giunta nel 2022, l’indice di fecondità (numero medio di figli per donna in età fertile, per convenzione tra 14 e 49 anni) ha raggiunto il valore di 1,24. C’è da dire, però, che gli effetti della riduzione delle nascite sono ben visibili già da diversi anni: infatti, dall’inizio del 2019 fino al 31 ottobre 2022, l’ISTAT certifica che la popolazione italiana è diminuita di 957 mila unità, e che il dato sarebbe stato ancora più alto (oltre 1,6 milioni) senza i flussi migratori. Il saldo dei nuovi ingressi, rispetto al tasso di natalità, risulta infatti positivo, con 361 mila nuove iscrizioni all’anagrafe e 132 mila cancellazioni per espatrio. La problematica è meno marcata al Nord e al Centro, dove il calo della popolazione è pari a -0,1% e -0,3%, in miglioramento rispetto ai dati del 2021 (rispettivamente -0,4% e -0,5%). Difatti il territorio più colpito è senz’altro il Mezzogiorno, dove si passa dal -0,2% del 2021 al -0,6% del 2022. In particolare, sono la Campania e la Sicilia le regioni che registrano il deficit più alto, pari al -0,6%.
Se nel 2070 si stima che l’Unione europea perderà il 5,2% dei suoi abitanti rispetto al 2020, per i Paesi del Sud, tra cui il nostro, si prevede un calo demografico di oltre il 10%. Al contrario, secondo le Nazioni Unite, il continente africano avrà un aumento del 146%, passando dagli attuali 1,3 miliardi di abitanti a 3,3 miliardi. Nell’analisi della situazione italiana, si tiene conto ovviamente anche dell’immigrazione: in uno scenario diverso, dove a contare sono solo le nascite e le morti e non l’immigrazione, il calo sarebbe addirittura del 33%, con una popolazione che passerebbe dagli attuali 58 milioni di abitanti a 40 milioni del 2070 (dati Eurostat elaborati dalla Fondazione Leone Moressa).


I fattori che influenzano la denatalità
Partiamo da un assunto generale: la natalità è un tema che riguarda la salute sociale ed economica di ciascun Paese, per questa ragione dovrebbe essere affrontato mettendo da parte le ideologie politiche di partito, costruendo insieme iniziative che possano invertire la rotta negativa e risollevare la nostra comunità. Una società più anziana, dove nascono pochi bambini, non solo rischia di perdere grandi percentuali di forza lavoro, ma rischia anche di incidere fortemente sulla qualità della vita di ognuno, a prescindere da quali siano i suoi valori politici di riferimento. Lo sbaglio principale compiuto nel corso degli anni dai vari governi che si sono succeduti, è stato quello di considerare la questione demografica come dominata da una mano invisibile, credendo che le cause alla base del problema fossero troppo complesse da modificare, o addirittura sostenendo che il fenomeno non avrebbe provocato effetti sociali ed economici rilevanti. Gli sbarchi dei migranti, a differenza del pensiero comune, negli anni hanno fortemente contribuito ad arrestare e contrastare il calo demografico. Senza gli immigrati la nostra piramide demografica sarebbe diventata e diverrebbe ancora più squilibrata, con un notevole aumento di anziani e con un numero sempre più ridotto di giovani. Le persone straniere residenti in Italia, pur rappresentando solo l’8,7% della popolazione, hanno contribuito notevolmente alla natalità: difatti nel 2020 i nati con almeno un genitore straniero sono stati il 21,8%, mentre i bambini nati da genitori entrambi stranieri sono stati il 14,8% del totale. Tuttavia, oggi come oggi, anche l’apporto positivo dell’immigrazione sta lentamente perdendo efficacia di fronte a un problema, come quello delle nascite, che ha ormai raggiunto dimensioni epocali.
Uno dei fattori più importanti che ha contribuito alla denatalità è stata la crisi economica iniziata nel 2007 negli Stati Uniti, la quale si è poi rapidamente diffusa a livello mondiale. In Italia tale crasi ha causato gravi conseguenze nel mercato del lavoro, un significativo aumento della disoccupazione giovanile e della povertà assoluta. Le difficoltà economiche e la progressiva precarizzazione dei salari hanno comportato, specie per le coppie più giovani, il rinvio della scelta di diventare genitori se non addirittura la rinuncia alla genitorialità. Sul tema si è espressa di recente la neo-segretaria del PD Elly Schlein che, intervenendo agli Stati Generali della natalità, ha dichiarato: “C’è un problema di nesso tra la crisi della natalità e la precarietà che colpisce soprattutto giovani, soprattutto donne, e soprattutto al Sud del nostro Paese”.
Oltre la crisi economica, anche l’avanzamento della crisi climatica ha contribuito negli anni ad abbassare il numero delle nascite, modificando di fatto la geografia umana del pianeta. Secondo lo studio “No future, no kids–no kids, no future?”, pubblicato sulla rivista accademica statunitense Population and Environment, il consumo eccessivo, la sovrappopolazione e l’incertezza sul futuro sono tra le principali preoccupazioni di coloro che affermano che il cambiamento climatico sta influenzando il loro processo decisionale in ambito riproduttivo. L’ansia da cambiamento climatico esiste ed è in continuo aumento, specie tra le nuove generazioni, al punto da influenzare gravemente la salute mentale e distogliere la popolazione dal proposito di mettere al mondo nuovi individui.
Il quadro demografico del 2020 e del 2021, inoltre, ha profondamente risentito degli effetti diretti e indiretti della pandemia da Covid-19: non solo è stato raggiunto un drammatico tasso di mortalità, ma si è verificato anche un calo dei matrimoni, una forte contrazione delle migrazioni e un’importante diminuzione delle nascite.
C’è da dire poi che, ancora oggi, tra i fattori che si ritiene possano ostacolare la natalità vi è l’utilizzo “liberalizzato” della pillola anticoncezionale e un eccessivo ricorso alla pratica abortiva. Sesso e riproduzione sono due fenomeni profondamente legati tra loro: in passato, quando la pillola non era ancora in circolazione (entra in commercio nel 1960) e quando l’aborto era considerato ancora un reato (ossia fino al 1978) interrompere volontariamente una gravidanza era sostanzialmente impossibile, se non ricorrendo a metodi molto invasivi. Sia la contraccezione che l’aborto hanno successivamente permesso di gestire i rapporti sessuali, consentendo alla coppia di decidere quando e se avere un figlio.
Se è vero che parte dell’opinione pubblica, specie quella più conservatrice, tende ad includere aborto e pillola anticoncezionale tra le cause di calo della natalità, è altrettanto vero che tale fetta della popolazione risulta spesso contraria alle moderne tecniche riproduttive introdotte in ambito scientifico, le quali hanno affiancato alla riproduzione naturale la c.d. riproduzione artificiale, permettendo così il superamento di problemi di sterilità, di patologie genetiche o di impossibilità biologica di concepire un figlio. Il perché di questa avversione è evidente: le tecniche di procreazione medicalmente assistita, così come la gestazione per altri, hanno profondamento cambiato il concetto di famiglia, di genitorialità e di filiazione, mettendo in crisi i valori tipicamente eteronormativi ed eteropatriarcali su cui si fonda la nostra società.

L’immigrazione può contribuire alla crescita della natalità e allo sviluppo economico?
L’ostilità verso l’immigrazione è un fenomeno profondamente radicato nella società occidentale, e spesso viene sfruttato dalle correnti politiche di destra, da Trump a Orban, fino a Salvini, per fomentare le masse contro quelli che vengono dipinti come “invasori” ma che il più delle volte non sono che persone povere e indifese, in cerca di un luogo migliore in cui poter costruire il proprio futuro. Agli immigrati viene spesso imputata la responsabilità per la perdita di sicurezza interna, per l’aumento della criminalità, per la stagnazione economica, per la crescita della disoccupazione. Eppure, come sostiene l’economista britannico Philippe Legrain, l’apertura ai migranti è economicamente vantaggiosa e culturalmente arricchente.
Come abbiamo osservato in precedenza, il bilancio demografico generale del nostro Paese è in rosso ormai da diverso tempo, ciò vuol dire che la popolazione totale è in calo, e se non fosse per l’apporto dell’immigrazione, il deficit di nascite sarebbe ancora più elevato. Tuttavia, anche i bambini nati da genitori stranieri sono in netta diminuzione rispetto agli anni passati (sia per la diminuzione dell’ingresso di donne in età fertile che per la progressiva acquisizione della cittadinanza italiana da parte di coloro che risiedono in Italia da lungo tempo), quindi il contributo alla natalità derivante dai flussi migratori non può essere considerato di per sé risolutivo della crisi demografica in atto, ma perché privarsene? È un dato di fatto che, se nel computo totale delle nascite non includessimo anche i figli di genitori stranieri, l’inverno demografico che stiamo attraversando sarebbe molto più rigido.
Nonostante i dati siano molti chiari, certa politica fa davvero molta fatica a scorgere gli aspetti positivi dei fenomeni migratori, anche quando a beneficiarne è l’Italia stessa. La dimostrazione plastica di questa ritrosia politica si è avuta in occasione degli Stati Generali della natalità, convegno svoltosi presso Auditorium della Conciliazione, a cui hanno partecipato anche Papa Francesco e la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. “Natalità e accoglienza non vanno mai contrapposte, sono due facce della stessa medaglia. Rivelano la felicità della società. Una comunità infelice accoglie e integra, una infelice si riduce a somma di individui che cercano di difendere a tutti i costi ciò che hanno e si dimenticano di sorridere”: questo è un estratto dell’intervento del pontefice a cui, tuttavia, non è seguita alcuna replica da parte della premier, troppo impegnata a ribadire che i bambini possono nascere solo da una madre e da un padre, e a professore ancora una volta pubblicamente l’avversione del governo contro la maternità surrogata.
Dalle parole di papa Francesco si evince un concetto molto chiaro: l’integrazione fa bene alla società, non solo a livello culturale, ma anche sul piano economico e sociale. Non si tratta di innescare una contrapposizione sterile e anacronistica tra guelfi e ghibellini moderni, ma di riuscire ad esaminare la realtà evitando che la singola ideologia di parte possa contaminare la riflessione.

Nel 2020, la ricchezza prodotta dall’immigrazione regolare nell’economia italiana è stata pari a 134,4 miliardi, circa il 9% del PIL italiano. I migranti tendono poi a colmare le esigenze locali, offrendo il proprio impiego soprattutto nei settori a basso livello di specializzazione, tra cui agricoltura, edilizia e alberghi/ristorazione.
L’impatto demografico degli stranieri ha inoltre forti ricadute positive sul tasso di imprenditorialità, sulla dinamicità dell’economia e sui conti pubblici legati alla spesa previdenziale. Difatti, i contributi versati dai giovani lavoratori immigrati regolari hanno permesso, da un punto di vista finanziario, di far fronte a una cospicua parte del pagamento delle pensioni alla popolazione italiana, ben più anziana. Per giunta, unendo i dati MEF, INPS e ISTAT, si evince che nel 2020 i residenti stranieri regolari hanno versato allo Stato italiano circa 28,1 miliardi di euro, rispetto ai 27,5 miliardi di euro sostenuti dal nostro Paese per il capitolo immigrazione: ergo, l’impatto dei flussi migratori è stato positivo per oltre 600 milioni di euro!
Se la politica riuscisse a guardare con più lucidità al fenomeno migratorio, evitandone la strumentalizzazione per scopi elettorali e predisponendo normative che vadano a disciplinare gli aspetti critici della questione (presenza irregolare, lavoro nero, bassa scolarizzazione, scarsa mobilità sociale), i migranti potrebbero generare ancora più benefici all’economia italiana.

Possibili soluzioni per contrastare l’inverno demografico: il modello tedesco
È necessario prendere consapevolezza dell’allarme demografico in atto, analizzando la questione in modo serio e giudizioso ed evitando di rinnegarne l’esistenza ed i possibili effetti sociali. Come suggerito da numerosi studiosi della materia, nonché dallo stesso Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, occorre in primis dare valore alle giovani generazioni ed elaborare delle politiche ad hoc per permettere loro di esprimersi, svilupparsi e realizzarsi al meglio, evitando fughe in Paesi terzi. Per stimolare la natalità occorre quindi potenziare la base, agendo su tre linee direttrici: l’occupazione giovanile, mediante la creazione di un ponte tra scuola e mondo del lavoro; l’occupazione femminile, attraverso politiche di conciliazione tra lavoro e vita familiare; infine, l’immigrazione, mettendo in campo politiche che favoriscano la piena integrazione dei migranti come è stato fatto, ad esempio, in Germania. Quest’ultima rappresenta, infatti, uno degli esempi più virtuosi di integrazione poiché, proprio grazie ai flussi migratori, la decrescita demografica verificatasi tra il 2005 e il 2006 è stata invertita. Ad oggi, non solo la Germania si ritrova con milioni di abitanti in più rispetto agli anni passati, ma essi sono pienamente integrati con la popolazione autoctona e contribuiscono in misura rilevante alla crescita del PIL.
Le politiche tedesche per la famiglia sono particolarmente evolute rispetto a quelle italiane. L’investimento su tali riforme ha ricevuto una forte spinta soprattutto tra il 2005 e il 2009, quando al Ministero della famiglia c’era Ursula Von der Leyen. È stato così realizzato un vero e proprio cambio di paradigma sociale, sulla scorta dell’archetipo scandinavo, passando dal modello “male breadwinner” (in cui l’uomo è l’unica fonte di reddito e la donna si occupa della cura dei figli e della gestione della casa) al modello “adult worker” (in cui ogni genitore in grado di lavorare dovrebbe farlo, a prescindere dal genere e dalle responsabilità di cura che potrebbe avere); sono stati poi potenziati i congedi parentali e finanziati i servizi della prima infanzia.
Occorre dunque decidere che tipo Paese vogliamo essere: se chiuso in sé come l’Ungheria di Viktor Orbán o aperto come la Germania. È una scelta, le cui ripercussioni socioeconomiche non tarderanno ad arrivare.

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Una millennial appassionata di politica e diritti umani. Scrivo per diletto e dedizione verso la buona informazione.

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