American Psycho: un serial killer e la società dell’apparire

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C’è una cosa, di American Psycho, che mi ha sempre incuriosito. Per quanto sia un film chiaramente iconico e transgenerazionale, amato da GenX, Millennials, GenZ e vedremo in futuro, riconosciuto e riconoscibile, oggetto di critiche, studi e meme, ogni volta che mi è capitato incidentalmente di menzionare il fatto che sia frutto della regia di una donna – Mary Harron – mi sono trovata di fronte espressioni a bocca aperta: “Ah davvero?”.

 Sì, davvero: American Psycho è una regia femminile. Ma partiamo dall’inizio.

American Psycho è tratto da un romanzo di Bret Easton Ellis del 1991, ed è senza dubbio l’opera più celebre dell’autore americano che ha fatto della critica sociale e del black humor la sua cifra stilistica. Quando uscì, nel 2000, il film divise abbastanza la critica: chi ne elogiò la raffinatezza compositiva, chi ne criticò il soggetto e la logica, chi lo considerò una riuscita critica in forma sarcastica della “società delle apparenze” americana, chi trovò che il talento del cast fosse effettivamente l’unico elemento che elevasse l’intero film.

Mary Harron e Bret Easton Ellis

Di fatto, American Psycho ebbe un ottimo successo al botteghino e negli anni seguenti venne elevato al rango di film cult, da posizionare accanto ai grandi successi della felice (dal punto di vista cinematografico) decade degli anni ’90.

La trama

La vicenda di American Psycho ruota intorno al personaggio di Patrick Bateman. Come nel libro, anche nel film Bateman è la voce narrante, che si presenta e si racconta in prima persona anche se i suoi interventi sono generalmente più limitati rispetto all’opera letteraria, dove l’intero nucleo narrativo è esposto attraverso la sua visione e le sue parole. Bateman ha 27 anni, lavora alla Pierce&Pierce, è manicale sulla cura del corpo e l’alimentazione bilanciata, ha una segretaria di nome Jean e una fidanzata di nome Evelyn, un debole per i completi di Valentino e gli occhiali Oliver People (e per tutte le cose costose e di alta qualità in generale), cerca disperatamente di prenotare un tavolo all’esclusivissimo Dorsia e ha un occhio ossessivo riguardo alle questioni estetiche.

Quando ci viene presentato, Patrick è circondato da una serie di personaggi a lui affini, che condividono lo stesso stile di vita, le stesse priorità e la medesima ossessione riguardo alle apparenze. Dopo qualche minuto nel film, tuttavia, ci viene presentato il lato oscuro di Patrick, ossia una mania omicida a cui verranno sacrificati senzatetto, prostitute, partner sessuali e il detestato collega Paul Allen, più carismatico, di miglior gusto, che ha in gestione il pacchetto più importante della società e che soprattutto ha il privilegio di poter riservare in qualunque momento un tavolo al Dorsia, ristorante in cui Bateman non riuscirà mai a prenotare un tavolo.

Dall’omicidio di Paul, la follia di Patrick diventa vorticosa. Nella parte finale del film, i toni diventano tarantiniani: dopo una allucinazione in cui il bancomat chiede da Patrick di dargli in pasto un gatto randagio, Bateman inizia una fuga vorticosa costellata di uccisioni. Una anziana signora, passanti, poliziotti le cui auto esplodono dopo pochi colpi di pistola, una guardia notturna, toni concitati e inseguimenti con tanto di elicottero, fin quando Patrick si rifugia nell’ufficio di un collega e, disperato, manda un messaggio sulla segreteria del suo avvocato Carnes, confessando la psicopatia, gli omicidi e il cannibalismo. Di lì a poco, Jean trova sull’agenda di Patrick una serie di disegni di morte e violenza, lo sfogo su carta o il diario degli orrori del suo capo.

Il giorno dopo, Patrick incontra l’avvocato Carnes, che tuttavia non ha preso in considerazione la confessione se non come un esilarante scherzo ben riuscito (e inoltre scambia Patrick per il collega Davis) e all’insistenza di Bateman risponde che non è possibile che Paul Allen sia stato ucciso, in quanto lui stesso era a cena con lui a Londra pochi giorni prima.

Il film si chiude sullo smarrimento di Patrick, che prende atto, disperatamente, che qualunque cosa lui faccia non abbia davvero significato e non può esistere alcuna forma di evoluzione di sé.

L’omicidio di Paul Allen, fotogramma dal film

American Psycho, almeno nel suo titolo, riporta alla mente un altro famoso serial killer del cinema, ovvero il Norman Bates dello Psycho hitchcockiano. Persino il cognome dei due protagonisti ha qualche somiglianza. Per il resto, tuttavia, le similitudini si fermano qui: l’ambiente sociale, le ragioni del disturbo, la psicologia dei personaggi è radicalmente diversa.

Patick Bateman è un serial killer, ma a differenza di Norman Bates, dove lo squilibrio mentale è predominante rispetto a tutto il resto e forgia interamente la sua persona, Bateman è prima di tutto qualche altra cosa, ossia un membro (non insostituibile) della società newyorkese. Sotto questo punto di vista, Bateman ricorda un po’ Dorian Gray, la cui perversione e violenza omicida non riesce a distrarre la società dalla sua bellezza. Come per Dorian Gray, anche per Bateman l’aspetto fisico e la posizione sociale sono maschere che impediscono il riconoscimento.

Qualunque cosa lui faccia è finalizzata a un obiettivo preciso: “I want to fit in” è la frase, ben scandita, che dice ad Evelyn. Bateman ha bisogno di definire se stesso all’interno di un gruppo sociale, mentre la sua confessione all’avvocato Carson introduce un bisogno diverso, ossia quello di definire sé stesso (seppure come assassino) oltre il gruppo sociale.

Il desiderio di fit in e il bisogno di individualità

Gli yuppie sono presentati come bambole di carta. Giocano, passano il tempo, si adornano. Non li vediamo mai veramente lavorare, l’agenda trovata da Jean, oltre agli schizzi dei massacri, è praticamente vuota, a parte qualche pranzo o cena. Non mangiano davvero ma si limitano a giocherellare con il cibo lasciandone la maggior parte, per quanto parlare di cibo e locali sia uno dei loro passatempi preferiti. Nelle scene finali, uno dei colleghi di Bateman dice “non ho veramente fame, ma vorrei un tavolo da qualche parte” (al contrario, il detective Kimball mangia, e con appetito, e con apprezzamento). I ricchi brokers parlano frivolmente, accennando ai problemi del mondo senza effettivamente averne il minimo interesse (a volte sbagliando platealmente i contesti, come quando Timothy Bryce commenta il massacro in Sri Lanka “dove i Sikh stanno facendo fuori migliaia di Israeliti”). Hanno un approccio incredibilmente misogino, le donne con cui si frequentano sono poco più di un accessorio: poco conta se siano dipendenti dagli psicofarmaci, poco interessanti (“ma esiste, poi, una donna interessante“) o fastidiose, purchè siano attraenti. In questa società elitaria, si respira un senso di vuoto e noia, celato dagli eventi e dai bei vestiti. Un vuoto che Ellis descrisse in una intervista come “consumistico”.

In questo contesto, Bates è solo uno dei tanti, ed essere uno dei tanti, in qualche modo, significa non essere nessuno.

Queste persone sono tanto simili tra loro da risultare quasi interscambiambili, una serie di sosia. Paul Allen continua a confondere Bateman per il collega Marcus Halbestram (“Come sta Cecilia?”), l’avvocato a cui Bateman farà la sua confessione lo scambia per Davis (“a proposito, come sta Cynthia?”). Sembra quasi che le uniche note differenziali tra queste persone siano piccoli particolari ossessivi, e nient’altro: un pacchetto azionario come il portafogli Fisher di Paul, o le fidanzate (Cecilia, Cynthia).

C’è un passaggio, nel libro, di una conversazione tra Patrick ed Evelyn che mi sembra esemplificativa:

-È ricco, – dico.
-Tutti sono ricchi, – dice lei, concentrandosi sullo schermo della Tv.
-È bello, – affermo.
-Tutti sono belli, Patrick, – dice lei distaccata.
-Ha un gran corpo, – insisto.
-Tutti hanno un gran corpo, oggi, – mi risponde.

Quando porta a termine la sua confessione, Bates è scioccato dalla maniera leggera con cui l’avvocato Carnes liquida la faccenda, sicuro che sia uno scherzo esilarante (continua a scambiare Bateman per Davis) e che lo scherzo sarebbe stato ancora migliore se invece di Patrick – “such a dork. Such a boring, spineless lightweight” – fosse stato menzionato qualcuno come Bryce o McDermott.

Alla fine del film, mentre Jean sfoglia le pagine dell’agenda degli orrori e l’avvocato Carnes si allontana dallo scherzo “non più divertente”, i rumori si assottigliano e il rock&roll lascia spazio a una musica sospesa, allarmante, mentre Patrick compie la sua riflessione finale:

“Non ci sono più barriere da attraversare. Tutto ciò che ho in comune con l’incontrollabile e la follia, la perversione e la cattiveria, tutto il male che ho causato e la mia totale indifferenza verso di esso, ormai li ho superati. Il mio dolore è costante e acuto, spero che per nessuno ci sia un mondo migliore. In realtà, voglio solo che il mio dolore sia inflitto anche agli altri. Voglio che non si salvi nessuno. Ma anche dopo averlo ammesso, non c’è catarsi. La mia punizione continua ad evitarmi e non ho imparato niente di nuovo su me stesso. Nessuna nuova conoscenza si può estrarre dal mio racconto. Questa confessione non significa niente.”

Mentre ragiona, la telecamera attraversa i volti delle persone nel bar: volti sorridenti, perfetti come maschere, fino a girarsi su Patrick e avvicinarsi lentamente ai suoi occhi che non battono ciglia, gli stessi occhi che ci sono stati presentati all’inizio, nella scena della routine mattutina, mentre Patrick afferma “io non sono lì”.

Ci sono un paio di informazioni interessanti deducibili dal monologo di Patrick. Innanzitutto, il suo desiderio di fit in si è traslato: non desidera integrarsi nello standard sociale, ma desidera che il suo standard diventi comune, che per nessuno il mondo dia migliore, che tutti condividano il suo stesso dolore. La sua mancata catarsi è invece una ammissione di fallimento. Il momento catartico è quello in cui ci si libera dal sentimento, esternandolo e in qualche modo esorcizzando l’emozione fino a comprenderla e lasciarla andare. Per Patrick non c’è alcuna possibilità che questo si verifichi: la sua individualità (per quanto da assassino) viene liquidata con la considerazione che non avrebbe comunque spina dorsale per essere un serial killer, e che Paul Allen – la sua nemesi, l’omicidio veramente di odio personale – è in realtà vivo e vegeto in qualche bar di Londra. Di nuovo, come sempre, Patrick è uno dei confondibili brokers della P&P, uno dei tanti, nessuno in particolare.

Nel libro, la chiusura è su un cartello appeso a una tenda nel locale in cui Bateman e i colleghi si trovano, un cartello, riportante, in lettere maiuscole, la scritta “questa non è l’uscita”, raffigurazione del senso di intrappolamento che ha pervaso Bateman, dell’impossibilità di uscire dal proprio contesto sociale, dell’incapacità di dare a sè stesso una individualità.

L’estetica di American Psycho

Uno dei grandi meriti della Harron è quello di aver selezionato un cast perfetto per il suo film. Se la bellezza statuaria e l’espressività di Cristian Bale hanno reso perfettamente il mondo interiore ed esteriore di Patrick Bateman, accompagnando un’ottima performance interpretativa, la logica dietro alla scelta degli attori e la composizione dello spazio rispecchia la necessità di ricreare il contesto della società finanziaria newyorkese degli anni ‘80.

Da questo punto di vista, il casting, lo styling e la scenografia sono stati essenziali.

Alcuni dei luoghi del film: da notare come il minimalismo secco degli ambienti direttamente attinenti a Patrick Bateman rispecchino la sua aridità esistenziale e la mania di perfezione.

Una delle cifre del film della Harron è chiaramente la bellezza, lo standard (alto, altissimo) estetico che diventa la base della sopravvivenza e dell’integrazione. Per quanto riguarda il cast, gli attori che interpretano i membri della società di Patrick, quella società in cui lui vuole “fit in”, rispondono a caratteri estetici precisi: l’attraenza fisica, l’opulenza stilistica, l’attenzione spasmodica ai dettagli, che siano un taglio di capelli o la sfumatura esatta di bianco di un biglietto da visita (bianco osso, bianco sacrale, off-white), insieme a un sorriso plastico. Sono tutti esteticamente molto simili tra loro.

Foto del cast in abiti di scena. Da sinistra, i personaggi di Bateman, Evelyn, Bryce, Courtney e Luis – Credits: Everett Collection

Fuori da questa società elitaria, troviamo gli altri: persone comuni come la segretaria Jean, il detective Kimball, la prostituta Christie, la conoscente di Bateman nella lavanderia cinese. Per tutti loro il requisito estetico si annulla, non fanno parte della società dell’apparire e anzi ne sono esclusi a prescindere. La differenza dell’aspetto, la differenza dei look non ha altro scopo che sottolineare questa distinzione. Persino la coppia dall’estetica gothic con cui Bateman, Bryce e Carruthers e le rispettive fidanzate vanno a cena in una delle scene iniziali del film rientra in qualche modo nei canoni dell’élite: da un lato, come Evelyn sottolinea, la cugina Vanden e il ragazzo Stash “sono artisti” (di che genere poi è un mistero) e quindi per loro si applicano regole diverse, dall’altro la loro estetica articolata non è casuale ma curata nei dettagli. Non è un caso che alla presentazione da parte di Evelyn, la macchina cinematografica inquadri la coppia evidenziando, in primo piano, il dettaglio del costoso orecchino di Vanden.

Assassino sì, assassino no

Uno dei nodi centrali che restano allo spettatore alla fine del film è la seguente domanda: “Ma alla fine, Patrick Bateman è veramente un assassino? O è stato tutto nella sua testa?”.

A quanto pare, la stessa Mary Harron non rimase del tutto soddisfatta del finale, che sembrò suggerire al pubblico in maniera netta la possibilità che lo sfogo omicida di Patrick non fosse altro che cartaceo. Nel libro di Ellis, il dubbio non compare. Nonostante la confusione mentale di Patrick, lo spettatore mantiene la certezza della realtà.

Le scuole di pensiero sono molteplici, possiamo riassumerle così: a) Patrick è un serial killer, ha compiuto gli omicidi che vediamo sullo schermo e quelli che non vediamo; b) Patrick è un serial killer, ma non ha mai ucciso Paul Allen; c) Patrick è schizofrenico, e le allucinazioni finali ne sono la prova: gli omicidi non sono mai avvenuti.

Lungi da me suggerire una interpretazione, vi lascio alla vostra.

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