Conversazione su Passages di Ira Sachs

Tempo di lettura: 7 minuti

Domenica scorsa stavo correndo con mia sorella e un amico alla sala Astra del cinema Anteo di Milano, cercando di recuperare un paio di minuti al lieve ritardo che minacciava la perdita dell’inizio del film. Finiamo quasi per scontrarci con un gruppetto di persone in uscita dalla sala (“Vi siete perse solo un saluto, il regista tornerà dopo i titoli di coda.” “Ah, grazie, allora a dopo.” “Ma era il regista quello che abbiamo quasi travolto?” “Ma sì.” “Ma no.”). Fortuna degli orari indicativi: ci sediamo con calma, silenziamo i cellulari (“Ecco, vedi la foto? Era proprio il regista.”), e la sala spegne le luci.

Inizia Passages, di Ira Sachs. Ed è il film che vi racconto questa settimana.

Passages è un film recentissimo, presentato a Gennaio 2023 durante il Sundance Film Festival. È già in cartellone in Francia e altri paesi europei, ma in Italia uscirà per la grande distribuzione il 17 agosto, quindi cercherò di stare attenta a non rovinarvi del tutto la visione del film. Se volete evitare ogni rischio, vi invito a tornare su questo articolo tra un paio di mesi.

Il regista con il cast: da sinistra Franz Rogowski, Adéle Exarchopoulos, Ira Sachs e Ben Whishaw

Passages è un film coraggioso, principalmente per la vicenda che mette in scena. A grandi linee, un regista esordiente (Tomas, interpretato da Franz Rogowski), sposato da anni ma in crisi con Martin (interpretato da Ben Whishaw) si innamora e inizia una relazione con una donna, Agathe (Adèle Exarchopoulos). Siamo a Parigi, la lingua passa velocemente dall’inglese perfetto di Martin a quello fortemente accentato di Agathe e Tomas al francese delle strade e di poche frasi gettate in giro, il francese che Tomas per qualche ragione non riesce o non vuole imparare. Questo innamoramento è semplice, immediato, esaltante: Tomas cerca continuamente Agathe, lascia l’appartamento che condivide con Martin e va a vivere da lei, fa piani per il futuro. Eppure, non riesce a evitare uno stato di confusione che si esplica in un ritorno costante dall’ex marito, nel sabotaggio della nuova relazione di lui e nell’illusione di poter mettere su una famiglia tutti insieme.

Sebbene Tomas ami perdutamente Agathe, non è pronto a rinunciare a Martin. L’attrazione, nei confronti di entrambi, è fortemente fisica, ma ancora di più è fortemente emotiva, e si compone come una necessità dell’altro, della sua presenza e della rassicurazione che proviene da essa.

Il tentativo di Tomas di creare un’unica famiglia con Agathe e Martin è destinato a fallire, non tanto per l’improponiblità di fondo della creazione di un rapporto di questo genere, ma per la totale assenza di interesse reciproco in Agathe e Martin. L’unica cosa che li accomuna è Tomas e il desiderio di un figlio, nient’altro.

Alla fine, entrambi si allontaneranno da Tomas. Agathe prima, Martin poi. Per entrambi si tratta di difendere sé stessi da una relazione che li rende infelici e insicuri. Agathe prende una decisione netta, senza mai tornare sui suoi passi. È un personaggio forte, che sceglie per sé stessa e si esprime senza esitazioni “ma senza risultare aggressiva” come notava una delle spettatrici in sala. A differenza di Martin, Agathe non perde mai sé stessa nel rapporto con Tomas. Martin non riesce. Sin dall’inizio, il suo rapporto con Tomas è talmente profondo e sbilanciato da annullarlo nell’altro. Martin non si limita ad assecondare Tomas fino allo strazio, ma modifica il suo pensiero, i suoi bisogni e la sua idea di serenità per uniformarli ai pensieri, bisogni e serenità di Tomas.

Ira Sachs ha più volte ribadito che Passages non nasce come manifesto sulla fluidità nelle relazioni sessuali e sentimentali, ma piuttosto come una riflessione sull’intimità e sulle dinamiche dei rapporti umani. Nel mondo moderno, nel mondo della decodificazione comportamentale e sentimentale, c’è ancora nel cinema – secondo Sachs – un forte senso della vergogna e del peccato.

Il film giusto da vedere con la mamma” ho sentito qualcuno scherzare dietro di me mentre la folla fluiva via dalla sala Astra. Avrò forse sviluppato una forma di resistenza alla nudità e alla rappresentazione cinematografica del sesso, ma personalmente il film (che sicuramente esclude alcun senso della vergogna e del peccato, e credo sia un suo grande merito) non mi è sembrato scabroso.

Piuttosto, sono rimasta colpita dalla sua estetica chiara, luminosa, dove una vestaglia rossa passa svolazzando tra le scene e le luci fredde di Parigi fanno risaltare i colori densi, profondi. La delicatezza formale della macchina da presa accompagna la delicatezza emotiva dei personaggi. Ogni cosa mi è sembrata trattata con affetto, con empatia, con dolcezza.

Martin, Tomas e Agathe – fotogramma dal film

Dopo essere usciti dalla sala, dopo aver salutato il regista (“Passages. È una parola sia francese che inglese, e con molti significati.” “Eh già, è esattamente qualcosa con molti significati”), io, mia sorella e il nostro amico abbiamo ragionato su quello che avevamo visto e quello che era stato detto:

I. – Devo dire la verità, non avrei pensato a L’Innocente di Visconti (“Io non avrei pensato a Visconti in generale”) come a una delle ispirazioni del film. L’unica nota di contatto è forse questo spropositato egocentrismo del personaggio principale. Ne L’Innocente, che è tratto dall’ultimo romanzo di D’annunzio, il personaggio principale, che ha questa moglie interpretata da Laura Antonelli, la tradisce ma quando lei resta incinta – e il titolo L’innocente fa appunto riferimento a questo bambino – lui lo espone al freddo, alle intemperie, lasciandolo ammalare e morire. Quindi l’assenza di questo futuro incarnato dall’esistenza di questo bambino potrebbe essere un’altra nota di contatto tra i due film. L’ho visto anni fa, ma quello che ricordo è che è un film molto rigido, quello di Visconti.
M. – È anche una diversa cifra cinematografica quella di Visconti.
I. – Sicuramente. Ciò che proprio non ho colto in questo film era la Nouvelle Vague. (Questa era stata una considerazione del giornalista che stava intervistando Ira Sachs).
M.- Forse un po’ nella presentazione dei genitori di lei? La vecchia generazione e la nuova generazione che si guardano con diffidenza e non si capiscono.
I. – Sì, forse sì.
M.- Comunque fotograficamente mi è piaciuto molto questo film.
I. – Bello! Luci, colori, inquadrature. Molto bello esteticamente. Non me lo aspettavo.
N. – Personalmente, nel personaggio di Tomas, per il suo porsi nei confronti degli eventi, ho rivisto un po’ Alex (DeLarge, il protagonista di Arancia Meccanica). Non per l’epilogo, ma alcuni profili del carattere ce li aveva, soprattutto il suo essere costantemente poco riflessivo. Probabilmente è un mio accostamento mentale, e al regista non importava nulla di farcelo assomigliare, ma io un po’ di Alex, in Tomas, ce l’ho rivisto.
I. – Però la cosa che mi è emersa, è che Tomas mi sembrava sinceramente aver bisogno dell’altro. Io non ho visto una cifra di sfruttamento dell’altro, non sembrava usarli attraverso le sue bugie, tant’è che in effetti, di bugie, non ne ha mai dette. Li ha trattati in maniera terribile, ma bugie…
M. – Al massimo, ed è il massimo, ha omesso.
I. – Esatto. Quindi è vero che gli altri mi sono parsi a tratti delle vittime, ma più della situazione che proprio di lui. Non so come dire: degli eventi, ecco.
M.- Io lui non l’ho trovato manipolativo, come personaggio.
I.- Non è un personaggio manipolativo nel senso che non lo vediamo tessere trame. È istintivo, alla Alex, nel senso che fa quello che sente e ciò che vuole, mentre gli altri ci vanno di mezzo ma senza che lui li manipoli. Anche quando vuole tornare con Martin…
N.- Ma in teoria le tenta alcune opere di convincimento. Gli altri si prestano, però lui li tira in mezzo. Cioè, non sono gli altri che lo vanno a cercare.
M.- Questo sì, però lo fa senza trucchetti.
I.- Nel momento lui è sempre sincero. Anche quando Martin lo ha appena lasciato e lui torna da Agathe cercando di convincerla a tornare, io non riuscivo mai a vederlo non sincero in queste sue manifestazioni.
M.- Sono d’accordo. Un’altra cosa che mi sta facendo pensare è invece l’impostazione del giudizio, come raffigurazione di un approccio. Non sono personaggi giudicanti, in alcun modo.
I. – Per certi versi questa impostazione è molto europea, anche un po’ esistenzialista, molto post-moderna. Non ci sono valori di riferimento su cui impostare lo standard di un giudizio.
M. – Tutti i personaggi sono molto raffigurati in loro stessi, cioè, nella propria identità. Gli altri personaggi, nel bene o nel male, comunque la rispettano. Anche nella scena verso l’inizio, quando Tomas torna a casa e dice a Martin: “Stanotte ho fatto sesso con una donna” e poi addirittura “posso parlartene?”,  la reazione di Martin è comunque limitata al “Non voglio ascoltare” perché per lui – che fa di tutto per tenere insieme il loro matrimonio – si tratta di una conversazione dolorosa, non perché in qualche modo stia rimproverando a Tomas questo incontro.
I. – Addirittura, più tardi Tomas addirittura sembra rimproverare a Martin di non essergli vicino e di lasciarlo da solo durante questo suo percorso interiore.
M. – Come se l’identità del singolo fosse in effetti un bene di cui tutti debbano aver cura, anche se per Tomas la forma della sua identità finisce per ferire coloro che hanno fatto di tutto per proteggerla. Forse il significato della sua imprecazione finale in tedesco, la sua lingua madre, non sottotitolata e credo che sia una scelta precisa, ribadisce proprio questo: Tomas esiste nella propria identità e quest’ultima è ciò che lo definisce. Non avrebbe senso parlare di cambiamento, anche se è ciò che nelle frasi finali ha promesso ad Agathe, perché cambiare significherebbe dare una forma diversa alla propria identità e ciò trascende dalla sua stessa volontà. E sia Martin che Agathe se ne sono resi conto o lo hanno sempre saputo. Tomas è un personaggio molto egocentrico, molto istintivo, ma senza maschere.
I. – No, senza maschere. A me lui è parso guidato dalle sue fragilità. Non un personaggio che vuole accumulare potere sugli altri, ma che incidentalmente lo accumula perché mostra le proprie fragilità e gli altri, in qualche modo, non se la sentono di lasciarlo solo con le sue fragilità. Che comunque forse è una forma di potere, però, migliore di altre.

Abbiamo continuato a parlare un altro po’, sulla strada di Paolo Sarpi, di Passages e di Ira Sachs e del valzer di questi tre personaggi e di Visconti e Pasolini. Nella placida notte milanese, ci siamo ripromessi di esplorare un po’ meglio la cinematografia di Sachs e di rivedere qualche altro film uscito nel discorso. Probabilmente, il 17 agosto tornerò in sala a rivedere questo bel lungometraggio e a ragionare ancora un po’ su quei molti significati della parola francese e inglese che compone il suo titolo: Passages, come i passi di un libro o di un’opera, come le fasi di una costruzione, come il movimento e la traslazione, come una vestaglia rossa che copra uno o un altro corpo, scivolando tra una scena e l’altra.

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