Violenza di genere, condivisione non consensuale di materiale intimo. Necessaria un’educazione al consenso

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I fenomeni di violenza di genere che si stanno verificando in queste settimane non sono un’eccezione, non sono dei fatti assurdi e straordinari di cui poi dimenticarsi, ma rientrano nelle statistiche che annualmente vengono pubblicate (su molestie sessuali, stupri, femminicidi), rientrano in una violenza sistemica. Alcuni di questi: il bacio non consensuale di Rubiales alla calciatrice Jenni Hermoso, lo stupro di Palermo, lo stupro nei confronti di due ragazze tredicenni a Caivano, e, infine, il fatto che riguarda una ragazza ripresa nelle sue parti intime, dopo essere svenuta ad una festa a Latina.

In quasi tutte queste violenze di genere vi rientra la c.d. vittimizzazione secondaria, ossia lo spostamento della colpa e della sanzione morale e sociale nei confronti della persona che ha vissuto la violenza. In effetti, se sei donna e subisci una violenza e vuoi addirittura denunciarla, aspettati di subire l’ulteriore violenza del giudizio e della colpa: eri consenziente perché non hai urlato o sei andata a lavorare il giorno dopo (quindi non sei la vittima perfetta), eri ubriaca e quindi non era chiaro il consenso o lo stesso c’era inizialmente e poi è venuto meno (e quindi nel dubbio si dà per scontato che ci sia e che permanga? Non funziona così il consenso…), eri svenuta e quindi non potevi dire di no, avevi i jeans (che sono difficili da togliere) o un perizoma (che è provocatorio). Spoiler: come ti vesti, ciò che fai, ciò che bevi… in tutti i casi è colpa tua.

In alcuni di questi accadimenti, poi, sono presenti ulteriori precise violenze, che rientrano nella violazione della sfera personale, intima e sessuale della persona: in particolare, dopo la raccapricciante vicenda di Palermo, in cui una ragazza è stata stuprata da un gruppo di ragazzi, su Telegram sono iniziate a girare le richieste del video dello stupro; nell’ambito giornalistico e dei social, sono state diffuse informazioni dettagliate che hanno condotto alle generalità della ragazza.

Il Garante privacy, in queste settimane, ha emanato diversi provvedimenti, da ultimo quello del 29 agosto 2023, con cui ha comunicato di aver avviato un’istruttoria nei confronti dei siti che hanno diffuso le generalità della vittima della violenza sessuale di Palermo.

A seguito di numerose notizie stampa su una “caccia alle immagini” scatenatasi nelle chat, “l’Autorità – con due provvedimenti d’urgenza – ha rivolto un avvertimento a Telegram e alla generalità degli utenti della piattaforma, affinché venga garantita la necessaria riservatezza della vittima, evitando alla stessa un ulteriore pregiudizio connesso alla possibile diffusione di dati idonei a identificarla, anche indirettamente, in contrasto, peraltro, con le esigenze di tutela della dignità della ragazza”.

La diffusione dei dati personali della ragazza, ha ricordato il Garante, oltre che in contrasto con la normativa in materia di protezione dei dati personali, viola un preciso precetto penale, cioè l’art. 734-bis c.p. (Divulgazione delle generalità o dell’immagine di persona offesa da atti di violenza sessuale), che stabilisce che: “Chiunque, nei casi di delitti previsti dagli articoli 600-bis, 600-ter e 600-quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater.1, 600-quinquies, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies, divulghi, anche attraverso mezzi di comunicazione di massa, le generalità o l’immagine della persona offesa senza il suo consenso, è punito con l’arresto da tre a sei mesi”.

Nel citato provvedimento, “il Garante richiama quindi nuovamente tutti gli operatori dell’informazione e, più in generale, chiunque ritenga di occuparsi pubblicamente della vicenda, ad astenersi dall’ulteriore divulgazione delle generalità della vittima e ad adottare forme di comunicazione coerenti con la tutela della dignità della persona, evitando di aggiungere – seppur involontariamente – violenza a violenza”.

Diffondere nomi, foto e video, chat, verbali, o anche interviste dei responsabili (nonché di familiari e amici) contribuisce a diffondere la violenza e arreca un ulteriore danno alla vittima, la quale legge i giornali, vede i social, e recepisce quelle informazioni come noi. E no, non ha chiesto di trovarsi al centro dell’attenzione.

Soprattutto nell’ambito della diffusione non consensuale di materiale intimo, alla condivisione non consensuale di foto e video è spesso legato il c.d. doxing, ossia la la condivisione non consensuale di informazioni private e personali (recapito, indirizzo di residenza, profili social), le quali consentono di risalire facilmente alla persona, che diventa vittima di una shitstorm di messaggi, richieste, minacce, estorsioni.

Il problema comune, che si tratti di uno stupro o di uno “stupro digitale”, è la mancanza di consenso della persona che vive la violenza. In quest’ambito assume rilievo sia il profilo educativo, sia quello legislativo.
Attualmente, la normativa italiana non presenta un’esplicita nozione di consenso relativamente alla violenza sessuale o alla diffusione non consensuale di materiale intimo, come invece ha fatto il modello della legge spagnola (“Ley del solo sì es sì”), approvata nel 2022, la quale ha chiarito che il consenso è tale solo se liberamente espresso da chi è in grado di manifestarlo. Quindi, sarebbe necessario riempire il vuoto normativo che la giurisprudenza si trova a colmare, dando il via, in molti casi, a una serie di sentenze che non rendono centrale il ruolo del consenso e finiscono col colpevolizzare la vittima.

Parlare di questi argomenti non è mai facile, nemmeno per chi scrive e li tratta quotidianamente; occorre delicatezza e bisogna usare le parole giuste (perché le parole hanno sempre conseguenze).

Poi c’è chi le parole giuste non le vuole proprio trovare e contribuisce alla narrazione sbagliata della violenza di genere, per cui se tu vai a ballare, hai tutto il diritto di ubriacarti, certamente [grazie del permesso]. Però se eviti di ubriacarti e perdere i sensi, eviti di incorrere in determinate problematiche, e poi rischi che il lupo lo trovi”. Insomma, è facile: non vuoi che ti rubino la macchina? Chiudila in garage ed esci a piedi. Non vuoi che ti rubino l’orologio? Non metterlo. Quindi, chiuditi in casa. Eppure, la maggior parte delle violenze di genere è di matrice domestica. I lupi (che poi sono uomini) sono anche in casa.

Altri pareri, di cui proprio non potevano fare a meno, ci sottolineano che “non tutti gli uomini”. Sì, ok, ma “tutte le donne”, almeno una volta nella vita, hanno vissuto una molestia; su questo tema, molto importante l’iniziativa “yes, all woman”, della scrittrice e attivista femminista Carolina Capria, che ha raccolto centinaia di testimonianze di violenza verbale, psicologica, sessuale, domestica, ecc.

Quindi, sarebbe il caso di smettere di parlare di argomenti che non si conoscono, che contribuiscono alla narrazione tossica della violenza di genere. Quest’ultima dovrebbe stare al centro del discorso e bisognerebbe capire come insieme – sì, perché anche gli uomini hanno questa responsabilità (se non colpa, responsabilità) – dovremmo trovare delle soluzioni concrete.

È necessario partire dalla divulgazione, analizzare la matrice di tali violenze – la cultura dello stupro – e, soprattutto, sradicare una violenza sistemica tramite l’educazione affettiva e sessuale al consenso, in famiglia, nelle scuole e nella società. E no, non bere gin tonic non risolve il problema.

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Dottoressa in Giurisprudenza, abilitata alla professione forense, con un Master in Studi e Politiche di Genere. È un'attivista digitale, crea contenuti legali per Chayn Italia, una piattaforma che si occupa di contrastare la violenza di genere utilizzando strumenti digitali, ed è membro della Redazione de Il ControVerso. Scrive su attualità, diritti umani, privacy e digitale, inclusione, gender gap, violenza di genere.
Attualmente lavora nel settore dell'editoria libraria.

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