Perché non chiamarlo “revenge porn”

Tempo di lettura: 2 minuti

“La violenza e l’esercizio del potere
non hanno nulla a che vedere con la sessualità o il porno,
esattamente come lo stupro non ha nulla a che vedere con il sesso”.
@nonunadimeno https://t.co/A6Lb5ZefB8
NonUnaDiMenoMI (@NonUnaDiMenoMI) April 30,2020

Il lessico è il livello più visibile della lingua “e che muta più velocemente per rimanere aggiornato rispetto alla realtà e alla società che rispecchia. La lingua si adatta alle necessità dei suoi parlanti, e il lessico è in qualche modo la sua parte più mobile. Conoscere le parole ci aiuta a capire meglio il mondo, dato che le usiamo per concettualizzare la realtà e renderla raccontabile” (V. Gheno, Le ragioni del dubbio. L’arte di usare le parole, Einaudi, Torino, 2021, p. 99).

Le nostre orecchie e i nostri occhi sono abituati a sentire e leggere il termine “revenge porn”. La definizione, di origine anglosassone, fornita dal dizionario di Cambridge è: “private sexual images or films showing a particular person that are put on the internet by a former partner of that person, as an attempt to punish or harm them”.
In un comunicato stampa del 4 aprile 2019, l’Accademia della Crusca, nel raccomandare l’utilizzo della lingua italiana, ha suggerito ai parlanti di utilizzare il termine “pornovendetta”.

Eppure, questi termini sono totalmente fuorvianti.

Il termine vendetta indica un danno inflitto per rispondere a un danno subìto. Tale terminologia fa ipotizzare che la diffusione non consensuale di immagini intime sia avvenuta perché la persona ritratta abbia commesso un torto per cui essere “ripagata”.
La conseguenza dell’utilizzo del termine vendetta non fa altro che rinforzare la colpevolizzazione delle donne e delle soggettività che vivono tale violenza, deresponsabilizzando chi la commette ed escludendo altri moventi.
Infatti, la vendetta non è necessariamente la matrice che spinge alla diffusione di tali pratiche violente.

Poi, la pornografia rappresenta un’attività consensuale e il consenso è proprio ciò che manca nella diffusione di immagini intime, destinate a rimanere private. L’utilizzo del termine pornografia, dunque, comporta che le persone si arroghino il diritto di consumare contenuto realizzato o diffuso senza il consenso delle persone interessate, come fosse materiale realizzato da persone consenzienti.

Il termine “revenge porn” mira a colpevolizzare la persona che vive tale violenza, nonché a occultare la natura non consensuale della condivisione alla base del diritto di autodeterminazione.

Sarebbe, quindi, più corretto chiamare il fenomeno “Diffusione non consensuale di immagini intime”, in inglese “Non-consensual Dissemination of Intimate Images”, termine per primo coniato da Coding Rights e InternetLab.

Sull’argomento si segnala il prezioso lavoro di traduzione, da parte di Chayn Italia, di un articolo scritto da Sophie Maddocks per Gender.it.

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Dottoressa in Giurisprudenza, abilitata alla professione forense, con un Master in Studi e Politiche di Genere. È un'attivista digitale, crea contenuti legali per Chayn Italia, una piattaforma che si occupa di contrastare la violenza di genere utilizzando strumenti digitali, ed è membro della Redazione de Il ControVerso. Scrive su attualità, diritti umani, privacy e digitale, inclusione, gender gap, violenza di genere.
Attualmente lavora nel settore dell'editoria libraria.

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