Il Grande Dittatore: la prova di Chaplin e il corso della storia

Tempo di lettura: 11 minuti

Avete presente il genere letterario delle interviste impossibili? Quel filone già conosciuto in tempi antichi in cui un interlocutore raccoglie testimonianze di personaggi fittizi, divinità o gente scomparsa da tempo. Ogni tanto mi capita di intervistare qualcuno nella mia mente, personaggi fittizi, antichi esseri del mito o della storia. Ogni tanto mi capita una chiacchierata con qualche regista. Non sono mai riuscita a fare una impossibile intervista a Charlie Chaplin, ma se ne fossi in grado, gli chiederei: “lo sapeva, quando girava Il Grande Dittatore, che avrebbe fatto un film che non avrebbe avuto eguali?”

Il Grande Dittatore è un film che da solo scrive un capitolo del cinema. È un film di una importanza tale sotto talmente tanti aspetti da risultare davvero un unicum. Credo che la maggior parte di voi lo abbia visto. Se così non fosse, prima di iniziare a raccontarvelo, devo fermarvi qui.

Charlie Chaplin nel ruolo del dittatore – fotogramma dal film

La trama: un attore, due personaggi

Nel 1819, la guerra mondiale mette in ginocchio l’impero di Tomania (nella realtà, la Germania). Nella stessa guerra, un barbiere di Tomania ebreo salva la vita a un ufficiale, il comandante Schultz. Fuggiti dal campo di battaglia, i due scoprono che la guerra è finita: la Tomania ha perso.

Dopo quel giorno, il barbiere passa lunghi anni in un ospedale militare, mentre nel frattempo in Tomania sale al potere un dittatore, Adenoid Hynkel, che immediatamente rende chiara la sua avversità nei confronti degli ebrei e la superiorità della razza ariana. Hynkel e il barbiere sono due gocce d’acqua: Chaplin interpreta entrambi. Il barbiere non sa cosa sta accadendo, e quando torna nel ghetto si scontra con le “giacche grigie”, il corpo di polizia di Hynkel. Nella sua ribellione viene aiutato dalla vicina Hannah, con cui nasce del tenero. Ma l’insubordinazione del barbiere non passa inosservata. Le giacche grigie lo attaccano e tentano di impiccarlo a un lampione, ma il barbiere si salva grazie all’intervento di Schultz. Nel frattempo, Hynkel tenta di ottenere un prestito da un ricco banchiere ebreo: al rifiuto di quest’ultimo, decide di iniziare una repressione delle comunità ebraiche. Schultz, incaricato di coordinare queste violenze, si rifiuta di obbedire e viene arrestato. Nel ghetto dove si trova il barbiere, la situazione degenera. Schultz cerca l’amico e un rifugio, mentre medita un colpo di Stato. Dopo una fuga rocambolesca, entrambi vengono arrestati e condotti in un campo di concentramento, mentre Hannah e altri ebrei si rifugiano in Osterlich (nella realtà, l’Austria). Nel frattempo, Hynkel, che ha intenzione di dar prova di forza invadendo proprio l’Osterlich, viene a sapere che le armate del dittatore Napaloni (Mussolini, nel reale storico) sono state schierate sul confine. Decide di invitare il dittatore rivale per mostrargli la forza di Tomania e spingerlo a ripiegare. Da qui una serie di scenette comiche tra i due governanti, che finiscono per litigare come bambini. Alla fine, decidono di proseguire insieme l’invasione. Mentre l’esercito si prepara a partire, il barbiere e Schultz riescono ad evadere: nella ricerca dei fuggiaschi, le giacche grigie si imbattono proprio nel dittatore caduto in acqua durante una battuta di caccia, e – scambiandolo per il barbiere – lo conducono di nuovo nel campo di concentramento. Il barbiere e Schultz, invece, fuggiti indossando divise dell’esercito, finiscono in un accampamento dell’esercito di Tomania e qui il barbiere viene confuso con Hynkel. Messo alla testa dell’esercito, accompagnato da Schultz, segue le truppe nell’invasione dell’Osterlich fino alla conquista. Alla fine, sul podio da cui dovrebbe fare il discorso del vincitore, il barbiere declama quello che sarebbe stato chiamato “discorso all’umanità”, uno dei monologhi più iconici della storia della cinematografia del Novecento. Ed è sul suo pensiero ad Hannah, sul volto della ragazza in sovraimpressione, che il film si chiude: guarda in alto, Hannah! L’animo umano troverà le sue ali, e finalmente comincerà a volare, a volare sull’arcobaleno verso la luce della speranza, verso il futuro. Il glorioso futuro che appartiene a te, a me, a tutti noi. Guarda in alto Hannah, lassù.

Analisi di un film

Per parlare de Il Grande Dittatore è necessario mettere in ordine la cronologia: 10 novembre 1938, notte dei cristalli; 12 novembre 1938, Chaplin deposita la prima sceneggiatura del film.

1° settembre 1939, la Germania attacca la Polonia; 3 settembre 1939, La Gran Bretagna dichiara guerra alla Germania; metà settembre 1939, iniziano le riprese del film.

15 ottobre 1940, Il Grande Dittatore esce nelle sale cinematografiche statunitensi. Quando questo accade, lo spirito del tempo è cambiato: anche se gli Stati Uniti sono ancora ufficialmente neutrali, Hitler è diventato un nemico pubblico, il mostro che sta divorando l’occidente. L’opinione pubblica inizia ad essere agitata dai possibili sviluppi della guerra europea. Le realtà dei campi di concentramento vengono alla luce. In questo clima, Il Grande Dittatore assume sempre più l’allure di un film di propaganda anti-nazista.

Se pensate a questi numeri, a questo anni, vi renderete conto che la portata di quest’opera cinematografica è differente da qualunque altra abbia mai trattato del nazismo e dell’ascesa di Hitler. Siamo all’inizio della guerra, ciò che sarà si sta appena formando: qualunque altro film che sarebbe arrivato non avrebbe mai potuto fare dell’ironia sulla tragedia della Seconda guerra mondiale. Ce ne sono altri, di film di propaganda anti-nazista del periodo, alcuni dai toni seri altri definiti da toni parodici. Ma Chaplin è stato l’unico regista di fama mondiale che mise la propria firma su un film che, al di sotto della vena comica, è di profonda critica sociale. Anche in questo, Chaplin non era nuovo: già in Tempi Moderni aveva puntato il dito contro i meccanismi industriali di un capitalismo alienante.

Chaplin era l’unico regista di grande spessore che, per una semplice questione di tempismo, ha potuto permettersi di delineare ridendo le assurdità dei movimenti fascisti italiano e tedesco. Se fosse arrivato solo un istante più tardi, il film non sarebbe stato girato: fu Chaplin stesso a dichiarare che, se avesse saputo prima di quello che sarebbe accaduto, dei campi di sterminio e del degenerarsi della guerra, non avrebbe potuto girare il film.

Ma è ancora più incisivo pensare che forse, tra i tanti che nel corso delle epoche hanno visto questo film, ci potrebbe essere stato anche Hitler in persona. Non possiamo averne la certezza, ma una delle voci che è girata intorno al Grande Dittatore fu che Hitler, interessato per motivi di propaganda a come venisse rappresentata la sua presa del potere in Germania, aveva guardato il film in compagnia degli altri leader e ne era rimasto “divertito”.

In Italia, invece, il film rimase a lungo inedito per via della netta censura. La scelta verbale della disposizione del Minculpop ad essa relativa è decisamente rappresentativa: “Ignorare la pellicola propagandistica dell’ebreo Chaplin”. Ancora nel 1961, anno della riedizione, venne proposto di tagliare tutte le scene che rappresentavano Napaloni/Mussolini. Alla fine, solo le scene della moglie del personaggio vennero tagliate, dal momento che la vedova Mussolini era ancora in vita.

Il barbiere, Hynkel e Napaloni

Mentre ci schieriamo naturalmente dalla parte della gente del ghetto, rappresentata con dolcezza come persone di buon cuore, affabili e innocue, non proviamo la minima empatia per Hynkel: possiamo ridere di lui, non al suo fianco. Il critico cinematografico Roger Ebert sottolinea l’aspetto comico generato dalla vicinanza tra Hynkel e Napaloni: se il primo è un buffone dalla postura tronfia e l’egomania ridicola, il secondo “è un clown rumoroso, allegro, idiota la cui naturale attitudine alla giovialità attraversa come un taglio netto la falsa dignità di Hynkel”[1].

Le schermaglie tra i due corrispondono ai picchi di divertimento e humor: il tentativo di sistemare Napaloni su una sedia molto bassa in modo che Hynkel possa guardarlo dall’alto oppure la scena iconica delle sedie da barbiere dove ciascun dittatore cerca di mantenere la seduta più in alto del concorrente. Come vedremo meglio a breve, queste schermaglie sono essenzialmente sketch da cinema muto, dove l’uso della parola è semplicemente accessorio allo humor tutto visuale delle scene.

Se guardiamo tuttavia a un livello più profondo, possiamo renderci conto di come Chaplin abbia colto essenzialmente la caratteristica principale dell’Hitler che aveva il supporto delle masse. Hitler era essenzialmente un performer. Un attore sulle scene. Anche di questo riparleremo a breve.

Garbitsch

Una nota sui due personaggi che accompagnano Hynkel nella sua ascesa: abbiamo il ministro della guerra, Herring, e il ministro degli interni, Garbitsch. Per chi non abbia familiarità con le storpiature della lingua inglese, Herring sgnifica “aringa” e la parodia dell’uomo grasso è evidente; mentre Garbitsch suona particolarmente simile a “garbage”, rifiuto.

Mentre Herring è un altro buffone caricaturale, nella ricerca di armamenti bellici che non funzionano o continui errori di strategia, Garbitsch è particolarmente serio, posato, composto. Non è una macchietta, non è tratteggiato con l’intenzione di metterlo in ridicolo: anzi, persino quando si prende un piatto di crema sul volto di fronte a un giornalista, rimane composto. Ha una voce sussurrante, non urla, non si agita, sembra avere piani di lungo termine ben ponderati e dalla logica ferrea. Ed effettivamente è così: ciò che Garbitsch consiglia – come le violenze contro gli ebrei, le tecniche di intimidazione di Napaloni, le strutture belliche – sono di per sé tecniche funzionanti. Ma gli obiettivi di fondo – la conquista, l’assoggettamento – sono del tutto illogici. È il vizio di un sillogismo che dal punto di vista formale non ha nulla di sbagliato. Garbitsch spinge all’eccesso l’egomania di Hynkel. Trovo interessante come Chaplin abbia accostato a questo ruolo uno stile di recitazione molto poco parodico: un suggerimento forse, che le assurdità possono arrivare tanto da discorsi tonanti quanto da una voce pacata che maschera l’assenza completa di buon senso.

Il passaggio dal muto al sonoro

Quando fu realizzato Il Grande Dittatore, il sonoro era stato già introdotto da una decina di anni. Eppure, fu il primo film in cui Chaplin effettivamente si cimentò con la nuova tecnica. In Tempi Moderni, Charlot era rimasto un personaggio essenzialmente muto: aveva cantato, certo, ma non parlato. Il barbiere e il dittatore di questo film sono essenzialmente i primi veri personaggi a cui Chaplin dà voce.

C’è una certa coerenza tra questa scelta e la realtà dei fatti: Hitler stesso, come Mussolini, avevano raggiunto il potere e l’appoggio grazie alle loro capacità oratorie, ai loro discorsi tonanti. La realtà storica dell’epoca è ricolma di declamazioni e discorsi pubblici.

Poco più su vi dicevo di come Chaplin abbia colto l’essenza del successo di Hitler, che altro non è che una efficace performance: anche qui, il discorso torna necessariamente alle scelte del regista/attore relative all’uso del sonoro e alla pantomima tipica del muto. Prendiamo ad esempio la scena del discorso alla folla di Hynkel: per chi non la ricordasse, si tratta di una sequenza in cui Hynkel arringa il popolo che lo ascolta e lo applaude. Chaplin sceglie di far dire a Hynkel parole che non esistono, in una lingua che suona solo come il tedesco. Letteralmente, Hynkel non dice niente, ma anche se dicesse qualcosa non sarebbe importante: la sua performance, completa di colpi di tosse, è magistralmente sufficiente. La folla applaude.

Andiamo oltre: affianchiamo al discorso del dittatore quello finale del barbiere. Al contrario, questo è un discorso vivo, empatico, sensato, accorato. È un bel discorso, che quasi stona con il tono generale del film. Un discorso che sarebbe diventato il fulcro stesso del film. Le parole sono bellissime. Finalmente, Charlot ha parola. E le sue parole hanno significato. È un’opposizione diametrale rispetto al discorso di Hynkel. Ma c’è una cosa: anche qui, la folla applaude. La folla applaude sempre, sia a Hynkel che al barbiere, a entrambi con la stessa foga. Non c’è nessun silenzio sospeso, pensieroso o sospettoso, che sarebbe stato una reazione coerente di stupore. Ma uno stesso, identico applauso.

Attenzione a questa lettura: Chaplin non sta insinuando che la gente applaude chiunque sia su un podio, in una posizione di potere. Ma sta rendendo chiaro il suo pensiero: la folla, semplicemente, non ascolta affatto.

È un dettaglio, ma Chaplin mette un grande significato in questo piccolo dettaglio: la parola non importa. La gente non sta davvero a sentire. La gente, al massimo, guarda e alla fine smette persino di guardare. Un performer – un politico – a un certo punto sarà sempre il proprio, stereotipato personaggio, qualunque cosa dica o non dica.

Il bianco e il nero

Come non accade in relazione ai film a colori, spesso si sottovaluta la potenza della fotografia dei film in bianco e nero: forse perché si tende ad associare a questi film – per una necessaria limitazione cromatica – una sorta di standardizzazione. In realtà, la fotografia dei film in bianco e nero è tanto viva e studiata quanto quella dei film a colori, quasi parlante.

Il grande dittatore giova della direzione della fotografia di Karl Struss. Il suo bianco e nero si evolve nel corso delle scene. Consideriamo due categorie differenti: le scene di Hynkel e quelle del barbiere.

Nelle prime prevale quasi sempre un contrasto netto, vivido: il nero profondo si staglia contro bianchi luminosi, ricordando lo stile espressionista dei film tedeschi della seconda metà degli anni ’20 (avete presente Metropolis di Fritz Lang?). Il mondo attinente a Hynkel, anche in sua assenza, mantiene lo stesso carattere fotografico: i luoghi del potere e dei banchetti sono tutti molto netti, con un contrasto alto.

Passiamo invece alle scene inerenti al barbiere: qui la fotografia si evolve. Nelle prime scene il barbiere – che è essenzialmente Charlot, the Tramp – è bizzarro e maldestro, ha visto la guerra ma non l’ha capita. Le scene sono luminose e nitide, simili a quelle inerenti a Hynkel. Se fin dall’inizio l’apparato messo su da Hynkel appare ridicolo non è soltanto per la comunanza dell’interprete, ma anche per la comunanza dello stile fotografico, che trasla da una parte all’altra lo stesso registro stilistico.

Il mondo, all’inizio del film, è davvero in bianco e nero.

Quando il barbiere inizia a capire, prende contatto con la realtà, succede una cosa: il contrasto di abbassa, il bianco splendente e il nero profondo lasciano spazio a una varietà di grigi che mettono in luce le rughe, le pieghe, la polvere. Alla vividezza delle scene precedenti si sostituisce il dettaglio. I primi piani si fanno più intensi. Lo spettatore lo avverte, magari inconsciamente. Le scene di Hannah nelle campagne fiorite di Osterlich sono quasi in completa assenza di neri totali e di bianchi totali. Forse non ne prendiamo consapevolezza, ma l’occhio si inizia ad abituare. Iniziamo a registrare il bianco e nero precedente in maniera diversa. Hynkel continua a vivere nel suo mondo, e il suo bianco e nero che generava il sorriso inizia a generare inquietudine.

Nel monologo finale, il contrasto è delicatissimo. Tutta la fotografia del momento è eterea, sullo sfondo una chiesa.


Un genere, molti generi

Tra le numerose considerazioni che è possibile fare su Il Grande Dittatore, è importante una annotazione: Il Grande Dittatore è forse l’unico film in cui Chaplin si cimenta attivamente in una mistura di generi diversi. C’è la commedia, certo, che è poi la commedia della tradizione cinematografica fino ad allora – come si è detto – che necessitava di adattarsi a una forma visiva muta ed è pertanto prettamente “fisica”, fatta di pantomima e gag che suscitano una ilarità immediata. C’è ovviamente la satira politica. Ma ci sono altri generi che emergono: il film d’amore e il film drammatico.

La particolarità de Il Grande Dittatore è che Chaplin, invece di mantenere costante un registro comico, lo sospende frequentemente per dare spazio a toni diversi. Per intenderci: se questo tono comico fosse rimasto sempre attivo, le scene romantiche o di denuncia sarebbero rimaste semplicemente un sottofondo della scena comica.

Prendiamo la seguente scena: il barbiere e Hannah sono insieme a passeggio e stanno per comprare delle spille del partito delle “croci accoppiate” quando gli altoparlanti declamano qualche discorso di Hynkel nella sua lingua inesistente che non capiamo, ma di cui possiamo immaginare il contenuto. Il barbiere restituisce allora le spille al venditore e dice semplicemente: “non le vogliamo più”. DI lì a poco si scatena il raid delle giacche grigie nel ghetto.

Questa scenetta potrebbe in teoria essere comica, e invece, per come è girata, non lo è affatto. C’è una completa assenza di ilarità nella sua struttura. Qui la commedia si sospende. Quello che abbiamo appena visto è un momento drammatico.

Prendiamo un caso opposto: siamo verso la fine del film, il barbiere è stato scambiato per il Dittatore e le truppe di Tomania hanno conquistato Osterlich. Il barbiere viene condotto sul podio da dove deve tenere il discorso. Qui succedono alcune cose: la camminata di Garbitsch, Schultz e il barbiere sulle scale, perfettamente sincronizzata e dondolante, che in qualche altro film avrebbe potuto suscitare il sorriso, in questo caso sembra più una conduzione al patibolo. Sentiamo la tensione del barbiere, la facciamo nostra. I tre salgono, il barbiere si siede: la sedia si sfonda immediatamente: i tre iniziano a portare, scambiare, confondere le sedie fin quando finalmente riescono a sistemarsi. Questa è prettamente una gag, la maniera tradizionale del film muto di comunicare il divertimento. Ma non ridiamo. Per quanto i gesti siano quelli di una commedia, il registro comico è inesistente: il divertimento non viene trasmesso.

Alla fine del film, il tono comico non esiste più. La commedia iniziale – che pure si apre su una scena di guerra – è sparita. Il Grande Dittatore passa a un altro registro, diventa commedia, film d’amore e film drammatico. Sono generi che non si mescolano – come sarebbe accaduto più avanti, sullo stesso tema, con La Vita è Bella – ma restano nettamente separati, alternandosi a volta in maniera persino brusca, inaspettata.  Alternando a una danza ungherese di Brahms la violenza di un battaglione verso quattro anziani e una ragazza in una campagna, a un dittatore che fa volare un pallone a forma di mondo un ebreo che si rifiuta di scrivere “jew” sulla vetrina della sua amata bottega di barbiere.


[1] Nel testo originale: “Napoloni is a loud, cheerful, idiotic clown whose natural zest for a good time cuts right through Hynkel’s phony dignity”. Testo disponibile al link: The Great Dictator movie review (1940) | Roger Ebert

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