“Se la democrazia è uccisa nella fabbrica, non può sopravvivere nel Paese”*, riflessioni sul cinquantesimo anniversario dell’approvazione dello Statuto dei Lavoratori

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*Dalla Relazione di Giuseppe Di Vittorio al III Congresso della CGIL, Napoli, 26 novembre – 8 dicembre 1952.

All’interno della stagione riformatrice che ha attraversato l’Italia degli anni Sessanta e Settanta, è impossibile non ricordare lo Statuto dei Lavoratori (la legge n. 300 del 20 maggio 1970), della cui approvazione, proprio la scorsa settimana, è ricorso il cinquantesimo anniversario. Il primo ad affermare la necessità di una legge che riconoscesse i diritti costituzionali nei luoghi di lavoro è stato Giuseppe Di Vittorio, che, nel corso del congresso dei chimici della CGIL (9-12 ottobre 1952), sottolineò l’urgenza di uno Statuto dei diritti, delle libertà e della dignità dei lavoratori nell’azienda. Di Vittorio aveva osservato che gli industriali agivano nelle aziende «come se la Costituzione non esistesse», concependo «l’azienda come il proprio feudo, entro il quale hanno diritto di uso e di abuso, sulle cose e sulle persone, secondo il proprio libito».

Era frequente, infatti, che alcune delle libertà e dei diritti affermati dalla Costituzione venissero ignorati sui luoghi di lavoro. Un caso eclatante è quello della FIAT, che operava una vera e propria schedatura degli operai attraverso una fitta rete di informatori tra le forze dell’ordine e altri impiegati pubblici, raccogliendo informazioni sugli orientamenti politici e sui comportamenti dei propri dipendenti. Per Di Vittorio i proprietari e i dirigenti delle aziende impedivano ai lavoratori la libera espressione del proprio pensiero, la lettura e la distribuzione di giornali ed opuscoli non graditi, la raccolta dei contributi sindacali e l’esercizio del diritto di sciopero. La rivendicazione politica avanzata dalla CGIL di Di Vittorio, quindi, era sostanzialmente quella di tutelare, alla luce della Costituzione, i diritti fondamentali dei lavoratori, non solo nei confronti dei pubblici poteri, ma anche nei confronti dell’autorità privata dell’imprenditore. Questa richiesta rimase totalmente inevasa, però, per oltre un decennio, fino all’approvazione della legge n. 604 del 1966, che, con i voti favorevoli della maggioranza di centrosinistra e del PCI, pose un freno alle libertà dell’imprenditore, limitando il licenziamento ai soli casi motivati, escludendo, dunque, che il licenziamento potesse essere basato su motivi discriminatori. La norma, tuttavia, si applicava unicamente alle aziende con più di 35 dipendenti.

In questo contesto, dunque, la Storia ha ricevuto una vigorosa spinta. Il biennio ‘68-’69, infatti, è stato caratterizzato dal grande Movimento degli studenti e degli operai, che, dandosi parole d’ordine comuni, hanno tentato l’assalto al cielo. La mobilitazione operaia culminò nell‘Autunno caldo del 1969, coincidente con le trattative per il rinnovo dei contratti collettivi di categoria, in particolare del contratto del settore dei metalmeccanici.

Lo Statuto dei Lavoratori, su cui Giacomo Brodolini, Ministro del Lavoro del primo governo Rumor, aveva già iniziato a lavorare incaricando della stesura una commissione presieduta da Gino Giugni, divenne una priorità. Gino Giugni, sicuramente uno dei padri del diritto del lavoro in Italia, elabora un testo basato sul riconoscimento dei diritti per il tramite del sindacato Giugni, socialista e tra i padri del diritto del lavoro italiano del secondo Novecento, era convinto che la democrazia all’interno delle fabbriche potesse essere garantita unicamente attraverso la promozione del sindacato dei lavoratori e così, nello Statuto, volle affiancare al titolo primo, volto a garantire la libertà e dignità del lavoratore, in particolare in materia di libertà di opinione del lavoratore (art. 1), di regolamentazione del potere di controllo (artt. dal 2 al 6) e disciplinare (art. 7) del datore di lavoro, di mansioni e trasferimenti (art. 13), un titolo secondo dedicato alla libertà sindacale, in cui si affermava il diritto di costituire associazioni sindacali nei luoghi di lavoro e di aderirvi (art. 14), sancendo la nullità degli atti discriminatori (art. 15).

Allo scopo di rendere effettivi i diritti dello Statuto, fu introdotta la garanzia della stabilità del posto di lavoro, disponendo, in tutte le imprese con più di 15 dipendenti, la reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo mediante l’art. 18, più volte modificato, fino al Jobs act del 2015 che ha ridotto la tutela reintegratoria a casi residuali. Nel titolo terzo, invece, si riconobbero al sindacato il potere di costituire rappresentanze sindacali aziendali (art. 19) e diverse forme di partecipazione sindacale (assemblea, affissione, permessi, locali e garanzie della funzione sindacale, artt. 20 e ss.). Il titolo quarto, infine, oltre alle disposizioni in materia di permessi e aspettative per i dirigenti sindacali (artt. 30 e ss.), ha previsto, all’art. 28, un particolare strumento giudiziario volto a reprimere condotte antisindacali, in quanto impeditive o limitative dell’esercizio dell’attività sindacale o del diritto di sciopero.

La centralità del soggetto collettivo nel disegno dello Statuto è stata la grande intuizione di Giugni, che reputava le proposte basate esclusivamente sul riconoscimento dei diritti dell’individuo-lavoratore come di retroguardia, dal momento che è solo attraverso la collettività dei lavoratori che si può bilanciare lo squilibrio nel rapporto tra datore di lavoro e prestatori.

La cronaca di quei giorni resta un importantissimo pezzo della Storia di questo Paese.

Il progetto di legge fu approvato in Senato nella seduta dell’11 dicembre 1969. Il giorno seguente, il 12 dicembre, è ricordato per la strage di piazza Fontana, probabilmente uno dei picchi più alti della strategia della tensione. Il successivo 21 dicembre, infine, fu rinnovato il contratto collettivo dei metalmeccanici, anche grazie all’approvazione del progetto di Statuto dei lavoratori, che, nelle trattative, diede slancio ai sindacati nelle proposte concernenti il riconoscimento dell’organizzazione sindacale nell’azienda. Il successivo voto alla Camera avvenne il 20 maggio 1970 e vide l’approvazione dello Statuto con l’astensione del PCI, del PSIUP e del MSI. In particolare, il PCI ed il PSIUP considerarono un errore non aver riconosciuto il diritto di assemblea (art. 20) anche oltre la materia sindacale e rifiutarono l’idea che la tutela contro il licenziamento (art. 18) dovesse essere applicata soltanto nelle imprese con più di 15 dipendenti. Tuttavia il PCI, riconoscendo l’importanza dello Statuto, ritirò gli emendamenti al progetto di legge per facilitarne l’approvazione. Il testo definitivo della legge n. 300/70 rappresentò una mediazione «non neutrale», ma, come ebbe a dire lo stesso Giugni, «quando mai la mediazione di un responsabile politico è neutrale? E se deve essere neutrale, che bisogno c’è di porre in mezzo un’autorità politica?».

Con la successiva approvazione della legge n. 533/73, applicazione processuale delle tutele riconosciute ai lavoratori, infine, si chiuse il percorso di quella stagione riformatrice nel segno del lavoro.

Le mobilitazioni dei lavoratori avevano messo un tema al centro dell’agenda politica e la politica aveva fornito una risposta alta che finalmente aveva portato la Costituzione all’interno delle fabbriche. A partire dagli anni Ottanta e Novanta, però, la “restaurazione italiana” (che simbolicamente inizia nel 1980 con la marcia dei quarantamila a Torino) ha fatto segnare nelle aziende una fuga dalle tutele della subordinazione verso forme flessibili di lavoro e nei tribunali una prassi interpretativa, che ha teso a restringere l’ambito applicativo della subordinazione. In questo contesto, già dalla metà degli anni ‘90, un grande studioso come Massimo D’Antona, ucciso brutalmente dalle Nuove Brigate Rosse proprio in un altro 20 maggio, quello del 1999, ha affermato la necessità di uno statuto del lavoro «senza aggettivi», ossia considerato al di là della dicotomia tra lavoro autonomo e subordinato. D’Antona, infatti, lamentava l’esclusione dalle tutele del diritto del lavoro dei deboli (individuati nelle giovani generazioni, nei lavoratori marginali e nei migranti), costretti a subire i ricatti della precarietà e della flessibilità.

Da questo punto di vista, è certamente da salutare con favore una recente sentenza della Cassazione (la sent. n. 1663 del 24 gennaio 2020), che, interpretando l’art. 2 D. Lgs. n. 81/2015, ha riconosciuto le tutele della subordinazione (e, di conseguenza, anche quelle approntate dallo Statuto dei Lavoratori) a tutte le collaborazioni continuative e personali che presentano il carattere dell’etero-organizzazione, ossia l’inserimento funzionale della prestazione di lavoro nella struttura organizzativa del committente. La sentenza, non a caso, è stata originata da un contenzioso sulla qualificazione della prestazione di lavoro di alcuni riders di una piattaforma digitale, i quali, come molti lavoratori della platform economy, sono qualificati come lavoratori autonomi, su cui grava il rischio d’impresa, ma devono conformarsi alle decisioni della piattaforma, che determina unilateralmente il prezzo e le modalità di esecuzione del servizio, e patire un controllo da parte della stessa piattaforma attraverso i sistemi di geolocalizzazione e di valutazione della prestazione, da cui può derivare finanche la disattivazione dell’account. Tuttavia la categoria dei riders ha dato, con la sua lotta, (se non una spinta, almeno) una spallata alla Storia, portando il legislatore a modificare l’art. 2 D. Lgs. n. 81/2015 in senso più inclusivo (e proprio il nuovo testo della norma è stato tra i criteri ermeneutici su cui si è basata l’argomentazione della Cassazione).

Allargando anche ai riders e a tutti i lavoratori la cui prestazione è organizzata dal committente le tutele della subordinazione, sebbene questa sia operazione da compiere esclusivamente in via giudiziale, ad oggi, possono essere riconosciute le tutele approntate dallo Statuto dei Lavoratori in tutti i casi in cui la prestazione di lavoro è funzionalmente inserita nell’attività economica altrui, segnando un passo importante sulla strada tracciata dall’art. 35 della Costituzione, che, nell’ottica dell’universalità delle garanzie, afferma la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.

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