La movida espiatoria nel gioco dei mass media

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La colpa di una successiva ondata di contagio adesso se la prende la movida, e che nessuno sentenzi in merito. D’altronde, che cosa possiamo dire per opporci? E seppur non esista alcun termine giuridico e costituzionale che affronti il concetto di movida, della sua pericolosità, di una sua possibilità di tipizzare un reato, è proprio sulla movida che si è accesa la polemica sporca e subdola di giornalisti e politicanti.

Ma perché tutto questo astio comune? Riflettiamo. Prima è toccato ai runner, poi a chi durante la pandemia non aveva mai smesso di spostarsi per lavoro. Successivamente è toccato ai congiunti, due settimane dopo i riflettori si sono abbassati, invece, su Silvia Romano. Adesso i cittadini tirano le orecchie ai giovani e alle loro forme di socializzazione – nonostante non sia cambiato affatto il loro modo di godere del tempo in una società che mette al centro della sua economia il consumo, e nient’altro. (Non sarebbe da geni pensare che se aprissero musei, forse la folla si spalmerebbe più decentemente).

René Girard nel 1982 scrive un saggio dal titolo «Capro Espiatorio», nel quale spiega passo dopo passo la sua teoria rispetto l’esistenza sociale e funzionale del capro espiatorio. Secondo il modello di Girard, i rapporti umani vengono concepiti come conflittuali e rivali. L’essere umano vive in costante agonismo rispetto alla sua vita e gli obiettivi che (a stento) riesce a superare. Motivo di ciò, riversa i suoi fallimenti e tentennamenti in tutto quello che è esterno a lui, perché è molto più semplice così. Insomma, a chi interessa un’autoanalisi? E soprattutto, autoanalisi delle proprie responsabilità ai tempi di una pandemia? A nessuno. Siamo tutti perfetti cittadini, tutti rispettosi di regole. Almeno il più delle volte, oppure ogni tanto – o almeno quando qualcuno ci guarda.

George Orwell due anni più tardi ci presenta il Big Brother, dando campo largo alle più grandi teorie sociologiche e antropologiche dell’osservazione e delle sue influenze sul cambiamento umano.

«Nessuno ha mai visto il Grande Fratello. È un volto sui manifesti, una voce che viene dal teleschermo. Possiamo essere ragionevolmente certi che non morirà mai. Già adesso non si sa con certezza quando sia nato (..) Ha la funzione di agire da catalizzatore dell’amore, della paura e della venerazione, tutti sentimenti che è più facile provare per una singola persona che per una organizzazione»

Se il Grande Fratello decide che devi comportarti bene, perché ti sta osservando, allora tu ti comporterai bene. Se in quel momento abbasserà lo sguardo, tu mostrerai, invece, la tua vera natura, effimera e ribelle, eppure reale. E ai tempi di una pandemia qualsiasi, in cui le misure e restrizioni sono ai termini di controllo di massima sicurezza, allora il ruolo del big brother viene esteso indirettamente anche a tutti i cittadini. A quel punto, siamo tutti i giudici di altri e ci sentiamo legittimati nello scatenare il guinzaglio verso chi non si conforma alle nostre leggi.

Da notare bene. “Ci sentiamo“, non “siamo“. Per qualche strano motivo, ancora astratto da accettare, è compito dei media liberare il cane infuriato verso chi viene scelto come vittima sacrificale.

Pensiamo un attimo al Panopticon, il carcere utopico realizzato dal modello architettonico del filosofo Jeremy Bentham verso la fine del ‘700. Il principio base di questa realizzazione era la dissociazione della coppia vedere-essere visti.

I prigionieri qui sono costantemente osservati, ma non hanno modo di osservare, poiché sono separati dai compagni di cella attraverso muri spessi. L’effetto principale del Panopticon è quello di indurre nel detenuto uno stato cosciente di visibilità, in modo tale che si possano esprimere le dinamiche del potere. Il pensiero principale, secondo Bentham, era quello di esercitare una forma di controllo costante: se i detenuti avessero avuto l’idea di essere controllati costantemente, allora avrebbero seguito le regole.

Il panoptismo nel corso del tempo divenne una corrente filosofica così diffusa al punto tale da stimolare anche le teorie del francese Michel Foucault. Scrisse un saggio dal titolo «Sorvegliare e punire», concentrandosi sull’analisi storica dei sistemi carcerari, tra cui proprio quello del Panopticon. Anche per il filosofo, lo scopo principale della struttura era quella di indurre nel detenuto uno stato di cosciente visibilità che assicurava il funzionamento automatico del potere. Il carcere venne strutturato in modo tale che il potere potesse essere allo stesso modo visibile e inverificabile. Visibile, perché ogni detenuto sapeva bene che in quella torretta ci fosse qualcuno lì ad osservarlo; inverificabile perché, in realtà, questa certezza di essere visti non l’avranno mai per davvero. Ciò indusse molti di loro ad andare di matto.

Discostandoci un attimo dal pensiero di Bentham, l’analisi del potere di Foucault ebbe un ruolo decisivo nello studio della sociologia contemporanea. Il potere di Foucault si concentra sulle ortopedie dell’anima: non si definisce in base alla sua capacità di repressione, ma attraverso pratiche sociali come la tecnologia e la burocrazia – che sono modi di organizzare il controllo, in maniera informale, ma attraverso forme interiorizzate. Il potere, in poche parole, si insinua fin nella gestione dei corpi e ne determina i movimenti. Il concetto del corpo è legato al suo utilizzo nei rapporti sociali, relazionali e economici, e diventa utile soltanto quando è capace di essere sia corpo produttivo che corpo assoggettato.

In questo senso, possiamo ben capire quanto la burocrazia e la tecnologia, nella società contemporanea, siano diventati miele per le api. Con l’arrivo dei mass media, specialmente, comunicare è diventato più semplice che mai, la quantità di informazioni che riceviamo è direttamente proporzionale al tempo impiegato per ricercarne di nuove. Con i mass media, ogni notizia, che sia di cronaca o gossip, passa al setaccio, tessendo con scaltrezza un filo sottilissimo, che riesce ad innescarsi tra le emozioni e i comportamenti degli individui.

La sociologia la chiama “La teoria della coltivazione“, sviluppata negli anni ’70 dal professor George Gerbner. Il professore svolse degli studi sulla popolazione degli Stati Uniti giungendo alla conclusione che la televisione non ha effetti immediati sugli spettatori, ma vi è, invece, un effetto di cumulazione che induce l’individuo a non essere più capace di scindere la società reale da quella televisiva.

Nel particolare, il sociologo specificò l’esistenza degli Heavy-User, identificandoli come coloro che utilizzavano la televisione per più di sei ore al giorno. Formulando la teoria della coltivazione, i soggetti che vengono esposti maggiormente a scene di cronaca, paura o violenza, sviluppano di conseguenza sentimenti di rabbia e terrore per la società in cui vivono, poca fiducia nelle istituzioni. Con la massiccia presenza in tutto il mondo di un palinsesto televisivo globalizzato, la teoria della coltivazione indica nella televisione uno strumento di omogeneizzazione culturale a livello mondiale, in cui i messaggi televisivi formano un sistema coerente che crea la corrente del nostro modo di pensare.

Con l’arrivo delle telecamera sulle scene del crimine, negli ospedali, nelle camere dei deputati e addirittura nelle carceri e nei tribunali, si è passata ad una vera e propria spettacolarizzazione, che ha portato i cittadini a diventare piccoli esperti da salotto. Si distinguono, infatti: dottori, virologi, giudici, psicologi, sociologi, criminologi, antropologi, amministratori territoriali. Tutti hanno la stessa caratteristica, un cinque e lode su Facebook e un like alle più cerberi testate giornalistiche, affette dalla sindrome della visibilità, quella che non li rende più capaci distinguere il vero dal falso; quelle che non hanno remore se si tratta di un minore, di un soggetto con difficoltà, un soggetto non autonomo; che non hanno paura d’infrangere il diritto costituzionale sulla privacy di un individuo; quelle che non si preoccupano neanche d’indagare sugli episodi infangando il nome di una persona che nei fatti da loro citati, non c’entra assolutamente nulla, dandola in pasto agli esperti da salotto tramite i loro schermi, i loro social. Sono assolutamente coscienti del potere che questi mezzi riescono ad esercitare sulla società e sugli individui, hanno compreso che o impari ad utilizzare questi stessi mezzi e quindi a canalizzare il potere, oppure sarà lui ad avere te.

Allora non c’è da meravigliarsi se le notizie scorrono via così velocemente, soprattutto quelle false. E con le notizie, anche tutti i sentimenti riversati su di esse. Non c’è da meravigliarsi se un soggetto, a questo punto della nostra analisi, riesca a diventare dal niente il capro espiatorio di tutto, la vittima sacrificale, lasciando davvero pochissimo spazio ai ragionamenti sensati. Come per quelli che porterebbero a riflettere sulla natura del contagio, su una sua comparsa in un futuro prossimo, sulle azioni ambigue di Fontana e Gallera. Ancora. Sulle perplessità della didattica a distanza. Sulle difficoltà di gestione di molti commercianti, sulle problematiche economiche e occupazionali. Sulla criminalità organizzata che silenziosamente continua a danzare, sui crimini dei colletti bianchi che continuano ad esistere ora più che mai.

Vengono, dunque, rovesciate verità, episodi di violenza generica vengono presentati come rivendicazioni mafiose. Un giovane ragazzo che difende l’amica diventa uno spacciatore. Vengono montati servizi ad hoc in cui giovani in una piazza deserta diventano i nuovi untori pronti per essere portati in questura. Tutto per lanciare un chiaro messaggio manipolatorio. Ah, questa movida che danneggia il mondo!

Insomma, c’è davvero tanto su cui riflettere e dopo tutto, i cittadini lo sanno. Eppure chi detiene questo meraviglioso potere della penna (o della stampante, della parola) è diventato molto bravo nello spostare l’asticella dell’attenzione direttamente dalla parte opposta da dove dovrebbe essere, forse per non far uscire fuori verità scomode.

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