I ruoli di genere: lo strascico dell’antichità ai giorni nostri

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Molte delle situazioni che viviamo quotidianamente sono frutto di una recondita concezione che ognuno di noi al tempo stesso possiede ed attribuisce: la condizione di genere. Pensiamo, ad esempio, ad una classica cena romantica dove l’uomo si sente in dovere di pagare per entrambi o di accompagnare la donzella a casa per senso di protezione, oppure viceversa all’obbligo “morale” per cui una donna senta di avere il compito di svolgere le faccende domestiche.

Insomma, cliché e stereotipi sui ruoli di genere che sono duri a morire. Ma da dove nascono e soprattutto come mai sono così presenti ancora ai giorni nostri?

Partiamo proprio da dove tutta la nostra civiltà e cultura è nata: l’antica Grecia. L’uomo, legato all’eroismo nei poemi e alle funzioni maggiori rappresentate dagli dèi dell’olimpo, era considerato in primis come “animale politico”: uomo a tutti gli effetti era soltanto chi, partecipando effettivamente alla vita politica e avendo un ruolo nella difesa militare della città, aveva pieno accesso alla cittadinanza. La donna, invece, nell’antica Grecia era giuridicamente libera, ma non godeva di diritti politici: la sua vita era incentrata sull’ “òikos” greco. La supposta inferiorità femminile trova qui giustificazione in base alla dottrina delle facoltà dell’anima. Dopo aver chiarito che la funzione della donna nella famiglia è quella, imposta dalla differenza sessuale, di cooperare con il maschio ai fini della procreazione e della cura dei figli e della casa (particolarmente alle donne era assegnata solo una parte della casa, ossia il gineceo), Aristotele osserva che se l’uomo si distingue dagli animali per il possesso della facoltà razionale, la donna si distingue a sua volta dall’uomo maschio perché dotata di una razionalità solo parziale e, per così dire “dimezzata”.

La ragione e la competenza linguistica della donna sarebbero ristrette e limitate alla capacità di comprendere e obbedire agli ordini del capo famiglia, a cui spetta anche l’affidamento della condizione economica. Anche nell’ambito della procreazione, alla donna è assegnato da Aristotele un ruolo secondario. Nel concepimento, la madre interviene, infatti, come materia, cui il padre imprime il suggello della propria forma.

Le uniche donne veramente libere erano le etèree (ἑταίραι), per alcuni aspetti assimilabili a cortigiane sofisticate. Oltre a prestazioni sessuali, offrivano compagnia e spesso intrattenevano relazioni prolungate con i clienti. In maggioranza ex-schiave o straniere, venivano iniziate alla carriera dell’impudicizia in tenera età e spesso cambiavano il loro vero nome. Le eteree dovevano esibirsi in spettacoli musicali e di danza che avevano luogo anche durante i banchetti. Godevano di libertà esclusive: potevano gestire autonomamente i propri averi ed uscire di casa a loro piacimento. In sintesi, il potere dell’uomo era consolidato e indiscutibile e, di conseguenza, poneva la figura della donna come subordinata.

La rappresentazione vittimizzata della figura femminile è in effetti un punto cardine della nostra società contemporanea. Sentiamo all’ordine del giorno parlare di donne vittime di stupro, vittime di violenza, vittime di abusi, vittime di soprusi, vittime. Ma la vittimizzazione femminile è da analizzare molto più alla base. Scavando in un passato fatto di ruoli di genere e di un pensare comune che declassava e subordinava in ogni ambito il sesso femminile, si tiene meno in considerazione il fatto che questi danneggiassero e opprimessero (anche tutt’ora) pure il sesso maschile. Da qui probabilmente anche la derivazione dell’espressione “sesso debole”: aggettivo a dir poco sessista, che storicamente ha descritto la donna come essere umano con minor potenza, autorità, vigore a prescindere, ma che, con il tempo, ha tramutato la sua accezione diventando quasi una sorta di “scudo” per il genere femminile, protetto in molteplici circostanze e spesso anche giustificato in occasioni compromettenti. In un immaginario arcaico, dunque, la donna è l’essere umano debole per eccellenza, e per questo probabilmente lo “strascico” di questa antichità porta tutt’ora la donna ad essere descritta quasi esclusivamente come vittima.

Discorso opposto chiaramente per la figura maschile. L’uomo, sempre secondo la visione arcaica, è da sempre raffigurato come sinonimo di potenza: se ci facciamo caso, per trovare un parallelo con la lingua, lo stesso aggettivo “virile” possiede una duplice funzione, essendo proprio sinonimo di “potente” (ma anche di “coraggioso”) e indicando la pertinenza all’uomo (dal lat. virilis, der. di vir, “uomo”). Radici sin troppo profonde dunque, che fanno fatica a sradicarsi per lasciare spazio ad un immaginario moderno, libero da sessismo e ruoli di genere. Per questo l’uomo spesso si è sentito “in grado” di agire in modo violento nei confronti dell’altro sesso, facendolo così classificare automaticamente come debole e, quindi, vittima.

Ma la condizione di genere è mutata nel tempo anche per ciò che riguarda la concezione della donna in quanto madre e dell’uomo in quanto padre.

Nell’era moderna, infatti, le figure dell’uomo e della donna subiscono processi di mutamento sociale.

La famiglia moderna nasce proprio intorno alle figure della madre e del bambino. Asimmetriche, ma interdipendenti e sempre più rinchiuse in un rapporto esclusivo nello spazio domestico-familiare. La cura e l’educazione in quell’epoca fanno riferimento solo ed esclusivamente alla madre, che prima, invece, divideva il compito con altre figure allevanti. Prima la madre contadina aveva dai 7 figli in su: molti morivano e, inoltre, era anche lavoratrice nei campi anche fino alla vigilia del parto.

Con il capitalismo e l’industrializzazione lavoro e famiglia sono divenuti unità e luoghi distinti. La donna non è più unità lavorativa e, anzi, le norme sul divieto di lavoro minorile e le restrizioni di orario lavorativo portano molte donne all’esclusione dal mercato del lavoro e al solo compito di cura e allevamento dei figli. Nasce così la figura della madre casalinga, sia nel ceto borghese che in quello popolare. Accanto a questo troviamo rilevante anche il ruolo della Chiesa cattolica, che dipinge la madre come custode del focolare domestico e dedita totalmente alla famiglia. Il lavoro, divenuto così assorbente ed esclusivo, riempie così il tempo delle
donne, ed ecco che il numero dei figli diminuisce. Accanto a questo mutamento di ruolo, però, non vi è nessun riconoscimento giuridico. In Italia, si realizzò solo nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia.

Gli studi sulla paternità, invece, sono molto inferiori a quelli riguardanti la maternità. Il cambiamento paterno è avvenuto più lentamente. Anche nell’epoca moderna, infatti, il ruolo paterno mantiene sempre caratteristiche legate all’epoca precedente, quindi orientato all’autorità.

Il filosofo de Tocqueville apprese che i cambiamenti interni alla famiglia fossero connessi a quelli che avvengono nella società. Secondo l’autore, infatti, l’avvento della democrazia influì sulle relazioni familiari, modificando e riducendo l’autorità paterna. La divisione tra luogo familiare e luogo lavorativo incise molto sugli equilibri in famiglia. Il padre, durante l’epoca moderna, si allontana, mentre i figli sono più spesso a casa con la madre. Questo, sotto un profilo psicologico, danneggerebbe il bambino che nell’età adulta instaurerebbe rapporti anonimi e impersonali. L’assenza inoltre indebolisce l’autorità paterna.

Ma adesso fermatevi un attimo e riflettete su quanto effettivamente sia cambiato al giorno d’oggi. Cosa vediamo attorno a noi? Lascio a voi l’analisi e la descrizione sulle concezioni nell’età contemporanea, ma se le vostre valutazioni dovessero notare che alcune posizioni e atteggiamenti riguardo a questa tematica non avessero poi subito troppi cambiamenti rispetto a quanto illustrato, vi inviterei ad un’ulteriore riflessione.

Dovrebbe forse partire da qui la “rivoluzione” delle concezioni antiche, cercando e trovando tra di noi l’affermarsi di un pensiero differente, che non dia all’uomo quasi esclusivamente caratteristiche che lo descrivano come “cavaliere protettore” e poi carnefice e, di conseguenza, aprirci ad una visione libera da pregiudizi, che non faccia storcere il naso anche quando la notizia descrive una donna non vittima o un uomo come tale?

Dovrebbe forse partire da qui l’affermazione di un pensiero comune, che non classifichi la donna sulla base della sua apparenza estetica e attribuisca molta più fiducia alle sue capacità e competenze specifiche nel mondo del lavoro?

A noi, adesso, l’ardua sentenza.

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