Le verità sommerse dietro la morte di Giulio

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La storia di Giulio Regeni è specchio della mentalità gretta e qualunquista che serpeggia in Italia e degli incroci di geopolitica mondiale, non solo per le ombre mai chiarite di un caso che è diventato rapidamente internazionale, per poi essere quasi dimenticato dai media nazionali. È una storia ignobile, fatta di incroci economici, politici e geopolitici ed è la lampante dimostrazione di come, sempre più spesso, i principi vengano venduti in nome del controllo e della concessione delle risorse energetiche.

Fino ad oggi, la storia di Giulio Regeni, ricercatore presso il Girton College dell’Università di Cambridge, è il racconto, neanche troppo convincente, di una persona che “dovrebbe” aver violato una serie di norme in Egitto. Giulio, per queste presunte violazioni, da quanto si è capito dall’autopsia e da qualche foto, è stato seviziato, torturato ed il suo aspetto fu tale da renderlo quasi irriconoscibile alla sua stessa madre. A tanto si è spinta la crudeltà dell’attuale regime egiziano, guidato dal Generale (ora Presidente) Abdel Fattah al-Sisi, la cui presa del potere è avvenuta per tramite di un colpo di stato che, di fatto, ha annullato quanto avvenuto in piazza Tahrir.

Il giorno della scomparsa di Giulio Regeni non era casuale: era il 25 gennaio 2016, il quinto anniversario della Rivoluzione di Piazza Tahrir e le telecamere della metropolitana, quel giorno smisero, opportunamente, di funzionare e non si poté seguire il percorso del ricercatore.

Il corpo di Giulio Regeni era nudo e mostrava segni evidentissimi di sottoposizione a tortura: contusioni e abrasioni in tutto il corpo, come quelle tipicamente causate da un grave pestaggio, lividi estesi compatibili con lesioni da calci, pugni e aggressione con un bastone. Fu trovato il 3 febbraio 2016 in un fosso lungo la strada del deserto Cairo-Alessandria, alla periferia del Cairo.

La ministra Federica Guidi, che in quel momento si trovava in Egitto in missione diplomatica, con un gruppo di imprenditori, ha immediatamente interrotto la visita ed è rientrata in Italia. Già qui partì la prima, goffa, montatura: la Gendarmeria egiziana classificò l’evento come un “incidente stradale”.

Successivamente, venne tentato il depistaggio, dicendo che il suo omicidio fosse dettato da motivi passionali, ed infine si tentò un ultimo depistaggio, condannando a morte cinque criminali, noti per delitti comuni e dando a loro la colpa. Infine, come ultimo schiaffo, i servizi segreti egiziani ipotizzarono che Giulio fosse al soldo dei servizi segreti britannici (la cd. pista inglese tanto cara a molte testate giornalistiche italiane [1] [2]) , ma tutti questi maldestri depistaggi non hanno mai convinto coloro che cercavano la verità.

Davvero non potevano fare di peggio, un esempio della crudeltà umana espressa sia fisicamente che moralmente.

E come se non bastasse, poco dopo la sua morte, fu tentata una campagna di vera damnatio memoriæ, non solo da parte del regime egiziano, ma anche da parte di certa stampa “italiana”, la stessa che ha luogo in un paese che ama definirsi “democratico“. Tra le molte ignobili cose che si sono dette, si è parlato di un Giulio Regeni quale “sinsitroide che se l’è cercata” oppure “che vada al diavolo”, parole, queste ultime, dette dalla conduttrice Rania Yassin sulla TV nazionale egiziana.

O anche, per non farci mancare niente, il titolo de “Il Giornale” che diceva “Giulio tradito dalla sete di rivoluzione. E lo strano silenzio dei “suoi” giornali“, dimostrazione della mentalità becera e miserabile che striscia in questo Paese, anche davanti al caso di tortura e di violazione illegittima del diritto alla vita di un proprio connazionale.

Già solo per questo titolo, sarebbe opportuno iniziare a dubitare del carattere “democratico” dell’Italia, ma, in fondo, la libertà di stampa è una prerogativa del nostro assetto costituzionale, l’unico modo che resta per smentire quanti, in questi anni, hanno provato a gettare fango su Giulio (dai servizi segreti egiziani fino alla “migliore” stampa nostrana). È la verità il punto centrale, una verità che, a dire il vero, è ben lontana dall’essere scoperta, ma ci sono alcuni fatti che lasciano decisamente perplessi.

Sarebbe da ricordare come Al-Sisi, evidentemente per il suo impegno nel campo dei diritti umani, ha ricevuto il 9 Dicembre 2020, mentre si decideva sulla scarcerazione (poi non avvenuta) di Patrick Zaki, la più alta onorificenza francese, la Legion d’Onore. Un gesto, che, evidentemente, serve a cementare la proficua collaborazione tra Egitto e Francia, dimenticando di come il primo non rispetti i diritti dei cittadini di un paese alleato e membro dell’Unione Europea , quale l’Italia. Nonostante ciò, la notizia non è stata quasi citata dai media francesi ed il video stesso è quello fornito dalle autorità egiziane.

Qui il video della concessione dell’onorificenza, mentre Patrick sta ancora marcendo in prigione

Lo stesso Governo italiano, sulla vicenda, pare, quasi, abbia voluto stendere un velo pietoso il più in fretta possibile. Infatti esso, prima con Renzi e poi con Gentiloni, al tempo, non fu particolarmente deciso sul caso: venne ritirato l’ambasciatore nell’aprile 2016, ma, in maniera quasi nascosta, i rapporti furono riallacciati in una data non casuale, il 15 Agosto 2017 [3], data usata, ormai tradizionalmente, per prendere provvedimenti impopolari. Il motivo di tale colpevole silenzio era legato al fatto che l’Eni sia uno dei maggiori concessionari di licenze di estrazione petrolifera in Egitto e, in quel momento, si erano scoperti nuovi giacimenti petroliferi a Zohr e ne si stavano perfezionando i contratti, oltre ad altre trattative in corso per ulteriori espansioni proseguite fino ad oggi [4] [5].

Sono molti gli incroci internazionali che non permettono alla verità di venire a galla, tra questi: il proficuo rapporto tra Eni ed Egitto, funzionale anche al mantenimento delle concessioni libiche, oltre che quelle egizie; i rapporti torbidi tra i paesi occidentali ed il regime di Al-Sisi, il quale usa la leva petrolifera per poter continuare, indisturbato, a violare e soffocare ogni spunto di democrazia in Egitto. Il silenzio del Governo Italiano, quindi, non è stato solo colpevole, ma, senza esagerare, potremmo dire voluto, ed è un silenzio che non ha cambiato colori politici, dimostrazione di quanto l’Eni sia, in Italia, una potenza lobbistica da non sottovalutare e capace di influenzare l’indirizzo politico di qualsiasi Governo.

Insomma, volendo dirla tutta, della morte di Giulio sono colpevoli tanto i protagonisti della classe politica egiziana che di quella italiana ed europea e non è un caso se, ancora adesso, mentre la storia di Giulio non riceve più la dovuta attenzione, continuano indisturbati gli affari miliardari tra Italia ed Egitto, in nome della fornitura energetica del Paese. In un certo modo tutti, in Italia, sono colpevoli della morte di Giulio, una colpa dovuta al silenzio di questa tanto “celebrata” realpolitik.

La verità su Giulio verrà a galla, ma non ora, piuttosto tra qualche decennio, come minimo. E, come tante volte nella storia, si darà la colpa al regime “passato”, mettendo sotto silenzio non solo la storia di Giulio, ma anche i suoi diritti e le tante storie simili avvenute a danno di cittadini egiziani e stranieri (tra tutti Éric Lang nel 2013 [6]). Ed il silenzio colpevole dell’Italia tutta non può che indignare quanti gli volevano bene e non può che lasciare basiti e perplessi quanti, in questo Paese, lottano per la democrazia ed i diritti civili.

In poche parole, con Giulio non è morto solo un italiano, è morta la verità sull’altare della becera comodità intellettuale, di un riprovevole qualunquismo e di una spietata realpolitik economica e politica.

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