Il mondo dostoevskiano: Recensione de ‘’L’idiota’’ di Fëdor Michajlovič Dostoevskij.

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Giacché ci si assume la responsabilità di leggere un tomo di tale robustezza, rincarata dall’enfasi di intraprendere una lettura russa; si sa, è oneroso, impegnativo. È una missione da espletare, una strada sterrata difficilmente pervia, una cruna all’interno di un sotterraneo. Ti inabissi senza coscienza, poiché non si ha la giusta compostezza di far fronte a un luogo-argomento al quale ti ritroverai pavido. L’idiota è uno di quei romanzi il cui peso è insopportabile da sostenere, troppe pagine, troppi avvenimenti. A mio avviso, va’ centellinato per bene, degustato come fosse un buon vino rosso a temperatura ambiente, durante un pasto lauto.

Dostoevskij, è stato l’autore più osannato, criticato, sottovalutato, svalutato o sopravvalutato in tutta la letteratura europea, nazionale, e mondiale. Uno scrittore, ad ogni caso è oggetto di ossequio, odio o critiche allorché ha il coraggio di concludere, di pubblicare la propria creatura; Il manoscritto a cui condona una vita. La pubblicazione dell’idiota è datata nell’anno 1869, mentre tre anni ancor prima egli mestava il suo ‘’Dei delitti e delle pene’’ russo, ovvero Delitto e Castigo.

La matrice civile, umana, del suddetto si evolve, diventa irrespirabile un ambiente laddove l’uomo non si raccapezza dal circondario in cui pesticcia i piedi. L’idiota racconta di un principe tanto buono, Lev Nikolaevič Myškin, un Cristo moderno del 19esimo secolo. Il quale, s’incappa di già in treno d’arrivo-ritorno verso la Russia, con i due co-protagonisti sul vagone: Rogozin -la metà di Myskin, il doppio-, e Lebedev, un funzionario, dappresso dall’essere irritante, servile e alquanto apocrifo. I personaggi prendono tutti parola, parte, corpo, e azione all’interno della Creatura-libro.

Cos’è la doppiezza, l’essere moltiplicato, decuplicato, bipartito? Non è altro che una diaspora dell’essere, nel mondo. Nell’orditura del telaio-opera-libro; il doppio perde la propria metà, anfanato, prova a riacciuffarla novellamente, ma invano e senza successo. Il primo doppio, beninteso, come il secondo, resterà sempre consentaneo e morboso alla propria ontogenesi; quanto, è probante. Eppure, tutte le prerogative che il primo vuole trafugare al secondo, o viceversa, si avvicendano in incontri-scontri, frasi non dette, e divari sentimentali, se la prima metà rappresenta l’odio, l’amore, il disprezzo, il rifiuto, il secondo non farà altro che conglobare queste lacune mancanti, torchiando il primo per divenirne più riavvicinato, tale da trasmutarsi carnalmente nel primo, e viceversa. Il doppio cerca nell’altro i propri golfi vitali privi di fonte d’acqua. A ben vedere, ciò accade attraverso un desiderio; il desiderio di ottenere l’oggetto trasversalmente dal mediatore. Rogozin viene ingemmato come un essere sulfureo, meschino, un mero assassino; benché sia un essere completamente infelice e solo, ottiene il suo oggetto del desiderio dacché tenta di fare un attentato con il coltello a Myskin, d’improvviso. Il noto omicidio, per esattezza, il noto suicidio (Entrambi sono la stessa persona, in letteratura il doppio di uno equivale a una persona nell’intiera complessione formale) tende a ricongiungere i disgiunti avversari. Myskin desidera Rogozin, come Rogozin desidera Myskin.

Si sfuggono, non si riconoscono, eppure si arraffano avidamente gli indumenti per sfiorarsi.

 Da questo giorno innanzi, le peripezie avranno dimora tra due città principali: Mosca e Pietroburgo. La narrazione Dostoevskiana ha una peculiare lacuna verso il tempo: non si ha percezione di esso, non esiste, non è presente. Il lettore si interfaccerà con una catasta di avvenimenti all’interno di UN giorno qualunque; questa è una propria ‘’opera-sogno’’-consiglio ad oltranza di spuntare i nomi, si avrà difficoltà nel ricordarli di passo passo-. Andando a monte, Il principe-profeta, il messianico ‘’straniero’’ giunto in Russia, dalla Svizzera, con il suo timido fagottino, -indice di bontà, quasi di una puerile incertezza, viaggiare con una sorta di mottino, o peluche. Oggetto unico rimastogli- decide di conoscere l’ultima discendente del lignaggio Myskin; Lizaveta Prokofyevna, moglie del Generale Epancin. Sulla strada di ritorno, Myskin è reduce di una battaglia, una sorta di nemesi invisibile: il mal caduco, -l’epilessia, la cui vera analisi clinica non era attendibile all’epoca- caduco, perché era intermittenza fra un accesso di estasi, tremori vari e sconquasso corale, la vittima cadeva a terra come fulminata.

La degenza durerà tutto il suo ultimo periodo trascorsosi in Svizzera. Sussiste poi, l’incontro con il segretario dei due coniugi, Gavrìla Ardaliònovič. L’incontro fra questi è di straordinario e inaspettato scetticismo; Egli appare di una ambiguità clamorosa, con le ghette ai piedi, di bell’aspetto, e bonaria impressione. L’arco temporale è già delineato da una moltitudine di avvenimenti; La scena femminile staglia la sua bella eroina letteraria, Nastas’ja Filippovna. -Dostoevskij ha il vezzo di utilizzare gli stessi nomi o patronimici, come se i personaggi fossero delineati da una vera ipseità, dai tratti fisiognomici autentici, una temperanza che brancica il lettore quando ne scorge l’orpello- Ella è una bellezza disarmante, Nastas’ja figura come una donna altèra, dagli occhioni nocciola scuri e fitti, fulgente di abiti ampollosi, la crinolina, i ricci bruni, e le acconciature ridondanti. Nastas’ja, non solo sembra ringuainata di bellezza, fascinazione, di venustà; la personalità ‘’peperina’’ trasfigura quel viso armonioso, in una turpe inquietante di una mente imprevedibile. È l’esasperazione della poetica romantica, è l’irriverenza dell’orgoglio, una conflagrazione di doppiezza. Ci si aspetta da lei una tenue misura, un atteggiamento che si confà a quei sembianti scolpiti da Fidia, e invece ne consegue una polarizzazione; -Ex: L’isteria della Generalessa che eredita la terza figlia, Aglaja– Tutti i personaggi femminili, la presenza ‘’rossa purpurea ’’pura di donna, non si roda al contesto, non è aderente, ognuno ha le proprie turpitudini psicologiche, nessuno sembra quel è. È questa l’impostura. D. raggira il proprio pubblico, mistifica la realtà, rappresenta la frammentazione dell’io, la doppiezza. Ciascheduno tallona l’Altro, ognuno incarna un paradosso, una vegliarda febbre di misconoscimento. Il doppio è endogeno, si alligna nell’oscurità meandrica dell’Altro. Questo marasma di persone, vorticano attorno il principe, annaspando in apnea nella continua ricerca dell’altro: -Dacché Ippolit, un ragazzino di lì a poco morente, affetto da tisi, nichilista, disquisisce della sua Spiegazione-digressione durante il compleanno del principe, alludendo a Colombo, con la scoperta dell’America.- Sopraggiunge il diletto non tanto della soddisfazione paga della scopritura di una nuova terra, quanto la perpetua, lunga via di ambagi che permette all’uomo di essere utile, di ‘’iscoprire’’ un senso, di essere antesignano di un qualcosa che neanche andrà mai a tastare o imbrigliare con i propri trabiccoli, o qualsiasi altra stramberia industriale; sta lì il senso della vita stessa, continua Ippolit trafelante, fra vari colpi di tosse ed emottisi per giunta, sostenuto dall’amico Kolja, figlio dell’altro casato del Generale Ivolgin, fratello di Gavrila e Varvara Ardalionovna; Kolja è un mero inserviente del principe, è fedele, un mero dedito ascoltatore e compagno. Nella conclusione, dopo la morte del padre -Il generale, decaduto, e ormai divenuto un alcolizzato, persecutore del dolore familiare, reca affanni alla moglie Nina, mentendo e levigando l’infinita commozione di una vita trascorsa all’insegna militare- Myskin lo descrive come un ragazzo compito, che forse diventerà una buona persona. Adelaida, Aleksandra, e Aglaja sono tre bellissime sorelle, cadauna più charmant di un’altra. La maestranza filiale, è spesso oggetto di biasimo da parte della madre, Lizaveta, la quale ha istruito loro nel modo più morigerato assoluto, dinnanzi una società oculata, soffiatrice e conservatrice, ove i matrimoni combinati dispensavano come indulgenze chiesastiche. Aglaja, è un’altra effigie di spicco, forse l’unica ad avvedere la vera natura del principe, si dichiara innamorata come Nastas’ja di questi, ma al contempo ama Ganja (Gavrila); Un trio amoroso, una filza di andirivieni che involverà anche l’oppressione di Rogozin, il quale è follemente -alla lettera- innamorato di Nastas’ja. Se non la otterrà con l’amore, allora differentemente la carpirà con l’impudenza, l’omicidio, l’aggressività, l’umiliazione, l’odio. Nastas’ja si tributa simile a la pece più lutolenta -cadendo nel delirio, nella semifollìa, nel vittimismo- È una silfide silvana che è impossibilitata a redimersi dal male-incantesimo, ma anzi il livello di essere truce è paritetico. Ma questa pienezza tronfia, sembra quasi allargare l’ego della donna, questo masochismo pare quasi giocondarla agli occhi di tutti, ritrovandosi colma, mai vuota, piena di sé e del suo doppio-gioco dell’obolo.

Ma se questi personaggi si rincorrono a vicenda, costruiscono dei rapporti pressoché parossistici, perversi, interscambiabili, cos’è che autenticamente scelgono? La risposta ne è una sola, senza altre e troppe filosofie socratiche. Non scelgono nessuno. Nessuno sceglie l’Altro. Sono immersi in questa bufera ininterrotta della ricerca del desiderio, e la sua sospensione, la sua stasi. Nessuno, sembra a ben vedere, interessato all’altro. E questo spasimo che attraversa l’ontogenesi, la ricerca dell’essere attraverso il paradosso, sembra addirittura vana. -sembra quasi una commedia Pirandelliana-

 Prevarica il concetto di anacrisi e sincrisi; il primo, l’inganno mediante la parola o la situazione ad intreccio, il secondo, la polifonia dei diversi punti di vista. E gradatamente, ritroviamo uno spettacolo musivo di aporie umane intrapsichiche. Dostoevskij esperisce una narratio moderna, per contro la narratio vittoriana, è novizia, sfornita di cliché, è propugnatrice di valori e apparenze controintuitive, che scardina l’usuale padrona di vita: La noia. Un’indolenza che viene eraldicata attraverso l’incito del dialogo; la narrazione è dialogica, analitica e polifonica. S’industria con la tecnica del pensiero contraffattuale, il controintuito, s’incammina per la via dell’incertezza, del condizionale, i costrutti fraseologici constano pressoché una frattura dell’ipotetico, i personaggi parlano sempre con quasi illazioni, sovente adoperano il connettivo ‘’come se’’, come se appunto, dietro questa ‘’visione’’ di vita, muta e ermetica sboccia la realtà dell’opposto. Il narratore prosegue oggettivamente, fa strano che neanche lui sappia bene cosa stia per accadere, e questo lo si può render noto quando sembra parlare direttamente al proprio lettore.

 Questa dicotomia, Dostoevskij la riassume con l’ossimoro di ‘’Realismo fantastico’’. Egli, dichiara di intravedere molta più realtà nella fantasia stessa, ne ha edificato su un concetto di tutto punto straniato, come se sul boccascena presente nella mente, si fossero brulicate ideologie molto più reificate della realtà altra. L’incongruenza fra ‘’visione-realtà’’ comporta le idiosincrasie fra azione, pensiero, volontà dei personaggi –anche nel sogno vige una attinenza non ordinaria di detenere in egual modo la ragione mentre sonnecchiamo e siamo impetrati, eppure quando un nemico ci sta per attaccare, noi non reagiamo, restiamo solidali al nostro pacifico sonno, succede che a questi possiamo finanche divenirgli innocui o penosi-. Vige una legge oscura, di cui non si conosce bene la genesi misteriosa dell’umano: Dostoevskij è invece veterano nel saperle saggiare, eppure non si dichiara mai psicologo, nemmeno nei taccuini più intimi. Si dichiara come conoscitore di tutti i corruschi infernali dell’umana anima.

Furono molti, coloro che convalidarono la inattendibile e fallace ‘’per sentito dire’’ follìa dell’autore; Non bisogna dar credito ai singoli personaggi, ma alla complessione del circondario dei personaggi. Dostoevskij riversa in loro non proprio dei dati autobiografici, -eppure, sembrerebbe così, non è vero?-

Ma ne attinge macchie pezzate dalla vita, che propinava lui, a prenderne spunto per costruire i suoi ‘’eroi’’, gli bastava la verosimiglianza, un pulviscolo di ontica, per effondere l’impossibilità di discernere un’eventuale realtà. Il suddetto, a onta di tutti, mistifica di diventar pazzo, e a scapicollo si invaghisce di un sentiero il cui nome‘’arte’’, L’arte è l’alibi più usufruito, è la manna salvifica, il nepente degli emarginati, di chi nel mondo non trova romitorio adatto, chi si estromette da un plico di titoli e onoranze, dei reietti, degli scrittori, della sensibilità morale, di chi è stato abbrutito, rintuzzato, offeso e vilipeso. Da questa sofferenza, forse si potrà perfino estimare un finale tragico, quantomeno dignitoso.

Il nostro principe-profeta e/o principe-umile -voglio fruire di tale ossimoro-, è l’apparenza riboccante di umiltà, tale dal prorompere fino all’ultima goccia dell’orlo del vaso. Dostoevskij ci rivela, in una delle lettere a Majkov la difficoltà di rappresentare un uomo di tutto punto buono, soprattutto in vista dei nuovi tempi. Eppure, ci sono molti episodi che saltano all’occhio, sulla vera natura personale del principe; essi avvengono quando s’intrattiene nel parlare con Ippolit, Evgenij Pavlovic e Ganja. Ma altresì con Nastas’ja e Aglaja, egli sembra totalmente disinteressato alle due donne che presume di amare, ne diviene anche distratto, quello che gli balugina in mente è l’effigie demoniaca del pretto e blandito desiderio quale è Rogozin.

Aglaja, sussiegosa confessa al principe che in lui non vi è alcuna parvenza di compassione, ma solo di misera e cruda verità; Sembra più che umile, un agglomero di mitezza, di perspicacia scarno di empatia, anche se dimostra di possedere una falla di compassione nei riguardi della sofferente Nastas’ja, tale da mutuarla nel sentimento di amore. Ma la verità non può essere che un sostrato di crudivore rivelazioni. Il principe, è sicuramente molto schietto, anche quando si esima, si restringe e cerca di divenire ‘’normale’’ tacendo. Ma la legge in questo mondo romanzato dostoevskiano, è di essere buffi, perché solo i buffi, i ridicoli, hanno tutt’al più una vera espressione, al di là dei ‘’normali’’. -come rivela dacché si reca dagli Epancin- ‘’la materia viva’’ .I normali sono impersonali, ed essi per Dostoevskij sono asettici. Il nostro principe-paradosso, viene ‘’smascherato’’ non solo dai suddetti, nel corso della lettura, altresì dal più vanaglorioso uomo-salottiero del libro ossia: Evgenij Pavlovic, il quale fa una rappresaglia al principe ‘’egli non ama ambo le donne. Non le ha mai amate, si era solo convinto di farlo!” ed è attualmente così. Un altro episodio è esplicitato dalla scena in cui Ippolit s’accinge a spararsi davanti ad un drappello di persone, al contrario, succede invece che la pistola non spara, s’incaglia con i colpi, e tutti sembrano ridere, un rabbuffo improvviso sconcerta il pubblico. Persino il principe rimane di stucco, non fiata, non per laconicità di parole, chiaramente. Sottilmente, esprimerà senza filtri il pensiero su Ippolit; nient’altro che un invidioso in procinto di morire, mentre Myskin, scevro dal pensiero della morte, si prepara per i celebrativi ante dal matrimonio previsto. Altri richiami avvengono con i nichilisti Keller – il quale scrive un articolo caustico sul principe, e sulla sua presunta idiozia, il lascito destinatogli dal tutore- Burdovskij -figlio illegittimo del tutore di Myskin, il quale pretenderà da quest’ultimo tutta la sua eredità cedutagli- Keller resta quasi allucinato da quella franchezza disarmante, che rescinde la parola agli altri interlocutori. ‘’l’uscire di senno, per una semplicità tale, un’innocenza tale che… zac! Affonda come una cuspide nella carne, nella tua mente!’’ Il principe, nondimeno l’opinione altrui, non asseconda mai l’altro. È profondamente innestato nelle sue idee, che queste prenderanno forma e statura in nome della Religione. L’idiota non è altro che un’esemplificazione di un’opera laica; tutt’altro che religiosa. Lo stuolo dei pensieri rifratti gallati dalla duplice visione che si ha di Cristo; il tutto confluisce con il quadro di Holbein, del ‘’cristo-morto’’ una pittura tutt’altro che paleocristiana, che si avvicina ad un realismo macabro, profano; il corpo di Cristo tumefatto, percosso, esanime, con il viso divelto dalle tribolazioni, gli insulti, sputi, e colpi di frusta.

Ebbene, questa visione ‘’laica’’ di un corpo che apparentemente è morto, non è risorto, ma ha inglobato dentro di sé l’immondezza dello stesso mondo che forse è stato addirittura creato affinché il Salvatore potesse comparire -spiega Ippolit- secondo alcune congetture, potrebbe rivelare il più grande dubbio del nostro autore: L’esistenza effettiva di Cristo. Dostoevskij, è attratto dalla figura di Cristo, lo ama incondizionatamente, crede che sia l’esemplare di perfezione eburnea, ineccepibile fra tutti i personaggi divini. Non metterà tanto mai in dubbio la sua figura, quanto la sua epifania. Un dubbio che ha sfiorato il limbo della consunzione, dell’attrito insoluto. Così si riverbera lo sproloquio sull’inefficienza della teocrazia papale di sfondo cattolica-romana. Myskin evince della vera forma di ateismo, che provenga da quei credenti, quei fanatici, quei belluini fraudolenti chiesastici appartenenti ad una chiesa sconsacrata, dissacrata da Cristo; il papa che brandisce l’elsa di una spada, è fuori dalla simbologia effettiva di ‘’Fede’’, o meglio la fidanza in qualcosa, in qualcuno. La recrudescenza della questione religiosa inalbera Myskin, l’ignoranza conduce ad un mondo deprivato di valori, onori, gratitudine che conduce all’ateismo; la Chiesa romana è vessillifera di angherie, di delitti, di violenza (allude alla Rivoluzione Francese, -Fratenité ou la mort!) Dunque, l’avversione al cattolicesimo è avvivata dall’ingiustizia, dallo stravolgimento della naturale semantica, dalla pregnanza del vero significato patrociniato, che viene terribilmente vessato. Myskin si reputa credente, ma simultaneamente è reticente nelle sue medesime esperienze vissute. Ma l’eristica dialogica tuttavia, si fa prepotente nel corso di tutta la narrazione; le opere dostoevskiane contengono delle chicche che ridisegnano l’imponenza di un tale autore che, non potrà mai essere soverchiato dal castro della mente. Il ‘’principe-povero’’ (ereditato da Don Chisciotte) è un principe serio, triste, non c’è nulla di parodistico, di ridanciano. Egli non è nemmeno un Cristo, ma nemmeno un cavaliere, Egli è la carne, il sangue d’ogni pagina stropicciata dell’autore gravido di accessi maniacali sui romanzi da concepire. In primo luogo, va assolutamente dispensata una lode al nostro scrittore per lo straordinario taumaturgico potere di concepire più storie, più romanzi e compendiarli in un’univoca trama; era adusto a scrivere a iosa, e a non sapere quale avesse potuto essere la successione, il prosieguo. L’assioma partorito sarebbe stato quello di sternere su carta le più idee possibili e fumide d’attrito, egli commetteva il peccato di affidarsi alla scia d’inchiostro della penna, meditabondo sull’accettazione, il successo, l’avallo da parte dei suoi lettori. ‘’o la va, o la spacca!’’  L’aire decisivo fu anche la coniuge stenografa Anna, alla quale il marito soleva leggerle ad alta voce gli scritti. Questo, gli consentiva di dare la pantomima adatta alle sue figure, di incorniciare nella mente gesti, tenori e atteggiamenti.

Le febbri, la nerezza, le luci dell’opera compongono una controfinestra musiva che contrassegna la firma d’autore. Si può addirittura credere fermamente, che, la sofferenza, l’accorazione fisica, la stanchezza molle che riduce inesorabile in un cencio sporco, limoso, abbia prosciolto i piedi legati dalle catene di ruggine di Dostoevskij. Egli si è liberato, non appena è partito per la Siberia. La possa di un tale trauma, la ferale incursione dalla vita semplice, pastorale e ridondante quanto una poesia barocca e frondosa, si commuta meramente nelle fattezze di una prigione senza alcuna massima, che come un Purgatorio espunge, catalizza il carcerato a mondarsi; sfiduciato dal tempo, dalle sue energie fisiche, dalle sue preghiere e litanie. Come il testo del salterio, dovrà ripercorrere ogni passo, dovrà sembrare invitto alle rimostranze degli altri condannati a morte, o semplicemente condannati alla pazzia, all’oligofrenia.

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Sabrina Pannone
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