All’inizio di questa estate, una persona mi ha rivolto una domanda: «Visconti o Fellini?»
Ho risposto istantaneamente, senza davvero rifletterci sopra: «Visconti».
La riflessione, che era mancata ab origine, si è presentata poi tutta insieme qualche minuto dopo: ne ero poi effettivamente sicura? E in maniera così netta, senza dover spiegare, né aggiungere altro, né approfondire?
Vi capita, a volte, di dover rincorrere i vostri stessi processi mentali?
Alla fine della corsa, mi sono andata a riguardare i lavori di entrambi, di Visconti e Fellini. Con tutto l’amore e l’ammirazione che provo per Fellini e il suo cinema, il suo simbolismo, la sua ricchezza tematica, la sua umanità che si rende parte dell’umanità, c’è qualcosa di Visconti che arriva a toccare specificatamente una corda nascosta dell’anima: Visconti mi intenerisce.
Nel circo multiforme di Fellini, tu vorresti entrare nella storia e vivere qualunque momento, essere lì a ballare, a parlare, a girovagare. Nelle atmosfere rarefatte di Visconti, non ne avresti il modo. I personaggi di Visconti sono soli, monumentali. Anche se entrassi nella pellicola, non potresti fare altro che sederti, e osservare.
Il film di oggi è una biografia, quella di Ludovico II di Baviera, il “Re Cigno”, il “Re Pazzo”. Il protagonista – splendidamente interpretato da Helmut Berger e doppiato da Giancarlo Giannini – di Ludwig, del 1973, di Luchino Visconti. Per chi non conosca il film e non gradisca ricevere anticipazioni sulla trama, devo avvisarvi di sospendere la lettura.
Da sinistra: Luchino Visconti, Romy Schneider e Helmut Berger
La trama e la censura
La trama del film segue la vita del Re Ludovico II di Baviera, dalla sua incoronazione nel 1864 fino alla sua morte nel 1886. Man mano che il film si snoda, vediamo Ludwig diventare sempre più tormentato, più solitario, più taciturno. All’inizio del film è un giovane di diciannove anni, ambizioso per sé e per il proprio regno, amante delle arti al punto da fare di tutto pur di avere il compositore Richard Wagner nella corte di Monaco. Ha uno stretto rapporto con la cugina Elisabetta d’Austria, l’imperatrice Sissi – interpretata per la seconda volta da Romy Schneider – e con il fratello Otto, più giovane. Avanzando nell’età e negli anni di regno, gli affetti di Ludwig si allontanano: Richard Wagner, dopo uno scandalo dovuto alla relazione con Cosima von Bulow, figlia del compositore Liszt e moglie del direttore d’orchestra von Bulow, viene allontanato – non senza dolore da parte di Ludovico – da Monaco; la principessa Sissi, intuendo una forma di interesse amoroso – seppur platonico – da parte del cugino nei propri confronti, gli suggerisce di sposare la sorella Sophie, deludendo le aspettative di Ludwig; Otto, dopo i traumi della guerra Franco-prussiana, sviluppa una forma di esaurimento nervoso che sfocia presto in una seria turba psichica che lo costringe ad un ricovero; la regina madre Maria si converte al cattolicesimo e si chiude lentamente nella religione. Anche la promessa sposa Sophie, presenza silenziosa, ma dolce e sinceramente affezionata al cugino, dopo la rottura del fidanzamento, scompare. Ludwig rimane sempre più solo, e trova conforto nelle arti e nel portare avanti i progetti dei tre castelli fiabeschi di Neuschwanstein, Linderhof e Herrenchiemsee, la cui onerosa costruzione suscita non poche critiche tra i ministri, la corte e la popolazione.
Si inizia a parlare di una instabilità mentale del re, che si disinteressa al governo e si rifiuta di tornare a Monaco. I ministri conducono una inchiesta che si pronuncia sull’incapacità del sovrano. Il re viene deposto e scortato al palazzo di Berg, dove viene affidato alle cure dello psicologo dr. Gudden. Dopo qualche giorno, al re viene concessa una passeggiata, in cui sarà accompagnato dal dottore. Al ritardarsi del loro ritorno, vengono inviate delle squadre di ricerca che li ritroveranno, annegati, nel lago.
Il film nella sua interezza ha una durata di quasi quattro ore. Quando è stato presentato, la prima volta a Bonn, era stato tagliato a poco meno di tre ore: un compromesso di produzione che Visconti aveva accettato con grande riluttanza. Sfortunatamente, il film subì altri tagli: in Germania Ovest, la raffigurazione dell’omosessualità del personaggio principale fu considerata scabrosa e altri cinquanta minuti circa vennero tagliati. Visconti si oppose con forza a questa mutilazione, anche facendo ricorso alle vie legali, ma non poté impedire che il film venisse distribuito in questa nuova versione.
La versione restaurata, integrale, lavoro minuzioso di restauro dei negativi originali condotto degli amici del regista e in particolare di Suso Checchi d’Amico e Ruggero Mastroianni, vide la luce nel 1980. Visconti, morto nel ‘76, non la vide mai.
Ludovico e Luchino: storia di un’empatia
In molti dei film di Visconti si percepisce la presenza del regista. Fellini, nelle sue regie straordinarie, filmava il suo mondo, il suo immaginario. Fellini filmava “al plurale”, dedicando l’occhio della macchina da presa a una multiforme circense schiera di esseri umani. Visconti invece ha quasi sempre lavorato “al singolare”: al centro di ciascuno dei suoi film c’è un solo uomo. E molto spesso quell’uomo, inventato o realmente esistito, era uno specchio di Visconti.
Di tutti i suoi lavori, mi sembra che sia Ludwig quello in cui Luchino Visconti ha specchiato maggiormente sé stesso. Di tutti gli uomini che Visconti ha raccontato, Ludovico di Baviera è stato l’unico ad aver lasciato qualcosa di sé agli altri: i suoi magnifici castelli, il mito della sua vita e un ricordo. Non sembra difficile affiancare a questa eredità quella, cinematografica, di Visconti.
Ma esistono tanti punti di contatto tra il film e la vita reale del regista: i ministri bavaresi che parlano guardando fisso in camera, guardando fisso lo spettatore, incutendo soggezione da un lato e apprensione dall’altro per la sorte del sovrano, ricordano sospettosamente una giuria di critici cinematografici. L’omosessualità di Ludwig vissuta in maniera non esplicita, conformemente ai costumi e ai tabu sessuali dell’epoca, e all’inizio con turbamento, resta comunque una forma di amore vissuta appieno, non in maniera platonica ma carnale. Se Visconti aveva avuto numerose relazioni ed avventure, stabili o effimere, così Ludwig porta avanti le sue (in una scena, uno degli amanti del Re, lo scudiero Richard Horning, chiamato di fronte alla invisibile giuria, sottolinea implicitamente la lunghezza e la forza della loro vicinanza: “sono stato a servizio del Re per dieci anni… Durante i miei anni a servizio del Re, non ho mai tradito la sua fiducia. E non ho alcuna intenzione di farlo oggi“). Per Visconti, come per Ludwig, l’attrazione nasce dalla bellezza (Elisabetta, Volk, Horning, l’attore Kainz), dalla ricerca di quella perfezione estetica che accompagna gli occhi di entrambi attraverso castelli, scenografie, pellicole e paesaggi, anche senza escludere una forma di amore di natura platonica, che scaturisce dall’ammirazione o da una affinità spirituale (Wagner, e di nuovo Elisabetta). E ancora, il sentimento religioso cattolico forte, da cui tanto il principe bavarese quanto il regista non si sarebbero mai del tutto allontanati, ma con cui si sarebbero scontrati (nel film, questo conflitto si esprime bene nel rapporto con il confessore di corte, che viene lentamente allontanato e da cui Ludwig pian piano si distacca).
Ludwig incontra Kainz a Linderhof – fotogramma dal film
Molte delle parole di Ludwig, delle sue aspirazioni, delle sue ispirazioni, dei suoi ideali, potrebbero essere parole di Visconti, dai sogni della gioventù, all’amarezza dell’età che sta avanzando. In questo passaggio, mentre Ludwig spiega la sua visione dell’arte ad Elisabetta, sembra che Visconti gli abbia fatto pronunciare le parole che lui stesso avrebbe potuto dire, o avrebbe voluto ascoltare: “la poesia di Wagner vale per la sua musica, e la sua musica vale per la sua poesia. L’una non può esistere senza l’altra, e da questa portentosa fusione nasce un nuovo linguaggio che riesce a farsi intendere da tutti quanti, in ogni parte del mondo, da tutti quanti. Un linguaggio che può anche divulgare le idee. Io non so spiegarmi, ma io so, io so che il regalo più grande che si possa fare al popolo è quello di arricchire il suo spirito”. O ancora: “l’arte è verità assoluta. Quel che rimane di un artista non sono le sue debolezze, che possono scandalizzare, ma il suo lavoro.”
La voce della storia: l’Ottocento e il Novecento viscontiani
Senso, Il Gattopardo, Ludwig in maniera preponderante, La caduta degli dèi, Morte a Venezia e L’innocente in maniera meno evidente sono i sei lavori ad ambientazione storica di Luchino Visconti. I primi tre hanno tutti una ambientazione ottocentesca, sfavillante di costumi d’epoca e arredi opulenti: Senso nella Venezia austriaca, Il Gattopardo nella Sicilia del Risorgimento, Ludwig nella Baviera della seconda metà del secolo. Con i tre rimanenti siamo già nel Novecento, ma comunque prima del mondo contemporaneo forgiato a seguito degli orrori e dei traumi della Seconda guerra mondiale.
Mi piace mettere a confronto questi film secondo questa divisione: da un lato una ipotetica “trilogia ottocentesca”, dall’altra una altrettanto astratta “trilogia pre-bellica”. Visconti, uomo di grande cultura e con una salda conoscenza della storia, mi sembra approcciare i propri soggetti in maniera differente: i personaggi ottocenteschi sono immersi nella loro epoca che sta cambiando inesorabilmente e questo cambiamento lo percepiscono con grande lucidità, tanto da muoversi attivamente verso di essi (come Ludwig, Ussoni, Tancredi). Hanno tutti una netta integrità morale, una fedeltà ai propri ideali. Sono combattuti e decadenti, ma restano in qualche modo limpidi nella loro essenza. I personaggi ottocenteschi di Visconti fanno parte di famiglie reali o antiche aristocrazie, volteggiando tra cerimonie, balli e calli veneziane. I personaggi novecenteschi di Visconti hanno invece un’anima e una psicologia molto più oscura, un’essenza tendenzialmente molto più individualista. A differenza dei personaggi Ottocenteschi, non percepiscono l’immanenza di un cambiamento storico comune, ma solo, al massimo, del destino individuale.
Ludwig ed Elisabetta – dettaglio dal film
E infatti, come negli altri due film citati, i personaggi ottocenteschi di Visconti sentono addosso il peso del tempo, il peso della Storia. In Ludwig, un personaggio estremamente conscio di ciò è Elisabetta, che profetizza la propria sorte: “…il tuo dovere è quello di costruirti una realtà! Dimentica i sogni di gloria, i regnanti come noi non hanno storia. Servono di parata, ci dimenticano presto, a meno che non ci diano un minimo di importanza assassinandoci.”
L’arte che eleva, la bellezza che salva
Il fil rouge dei film di Visconti è la bellezza. Come tema e come esecuzione, dal volto degli attori e delle attrici alla delicatezza di un dettaglio su un abito alla composizione di una scena. Come il proprio regista, Ludwig è attratto dalla bellezza, ne fa il motivo della propria esistenza.
Sono due i momenti in cui questa tensione al bello e all’estetismo sono resi incredibilmente espliciti, ed è quando tutta la bellezza di cui Ludwig si è ammantato svaniscono.
Un primo momento è quando, anni dopo il loro ultimo incontro, Elisabetta va a fargli visita nel castello di Neuschwanstein. Ludwig è invecchiato, appesantito, febbrile; si è rifugiato nei suoi castelli perché è l’unico luogo in cui può sentirsi sicuro contro la propria disillusione. È ben diverso dal cugino così bello, così simile a lei che Elisabetta aveva lodato a lungo: “il più bel Re d’Europa”. Ludwig disperato rifiuta di incontrarla: “Non posso, non posso vederla, non posso riceverla!”
Un secondo momento accade quando, sul finire del film, Ludwig – dichiarato instabile mentalmente – è ricondotto al castello di Berg, in cui la stanza che lo accoglie stride notevolmente con l’eccentricità e lo sfarzo dei luoghi in cui Ludwig si è aggirato in precedenza: è una stanza clinica, senza concessioni alla bellezza. È una camera che abbiamo già vista in una scena precedente, quando Ludwig incontra Otto, ma non ci era apparsa così triste, mentre il carillon e i giochi di ombre riempivano il soffitto. I quadri di gusto e le architetture fatate di Neuschwanstein e Herrenchiemsee sono sostituite da litografie banali, arredi impersonali e un brutto quadro di un ragazzo con un tamburo. In quel momento, mentre Ludwig si aggira nella camera che rappresenta tutto ciò che lui non è, si percepisce che la sua determinazione a non sottostare a questa forma di violenza – a costo di sparire – è netta, finale.
Ludwig a Berg – fotogramma dal film
Il conte von Holnstein e il conte Dürckheim
Del magnifico valzer di personaggi che si aggirano intorno a Ludwig, ce n’è uno che mi interessa particolarmente: si tratta del conte Von Holnstein, interpretato da Umberto Orsini. Il conte è un personaggio che viene introdotto presto nel film, meno di cinque minuti dopo il suo inizio. È infatti il primo dei ministri e dei testimoni che, guardando dritto in camera su uno sfondo intensamente blu, parla a una giuria invisibile (che poi forse non è che lo spettatore, il postero) introducendo l’inchiesta sulla malattia mentale del sovrano. Lo incontreremo ancora, a sbalzi, nel corso del film, fino ai minuti finali, in cui la sua presenza diventerà preponderante. Sarà la sua voce, netta e tagliente, a chiudere di fatto il film.
Se dovessi scegliere tra i personaggi presentati nella vicenda quello più simile ad una controparte ideale di Ludwig, non avrei dubbi a selezionare lui. Von Holnstein è la voce dell’efficienza. Non ha illusioni, non ha speranze – anche se usa queste parole – ma ragiona secondo calcoli. Rimane organizzato, rapido, nervoso nei movimenti. Non perde mai tempo, è sempre indaffarato, sempre teso ad un obiettivo. Ma proprio per questo non può comprendere il mondo interiore di Ludwig.
Alla fine del film, le ultime parole di Ludwig e le ultime parole di von Holnstein si scontrano brutalmente. Ludwig parla con Gudden: “Povero dottor Gudden, costretto a studiarmi da mattina a sera, da sera a mattina. Ma io sono un enigma, e voglio rimanere un enigma. Per sempre, per gli altri e anche per me stesso”, dopo di che scompariranno; di lì a poco verranno trovati da von Holnstein dichiara “il nostro re si è suicidato, e per farlo Sua Maestà ha dovuto uccidere il dottor Gudden. Portate i corpi al castello, immediatamente!”. Le parole sfumate, poetiche, aperte del re si contrappongono a quelle nette, decisive e chiuse del conte.
Ludwig aveva già presentato il pensiero del suicidio, e dell’annegamento in particolare. In quella occasione aveva anche affermato: “Ho letto molte cose sul materialismo. Un uomo non ne sarà mai appagato”.
Riporto la definizione offerta dal vocabolario online Treccani del concetto di materialismo: teorie filosofiche che, negando l’esistenza di sostanze spirituali, interpretano gli eventi del mondo attenendosi alla materia come unico principio esplicativo, rinunciando quindi alla spiritualità e all’immortalità dell’anima, all’intervento provvidenzialistico divino e comunque a ogni finalismo.
Von Holnstein incarna questa filosofia. Il film si chiude così nettamente, in maniera così brusca, con quell’ordine che ancora una volta non perde tempo – ”immediatamente!” – perché la morte di Ludwig ha portato con sé il tempo del soffermarsi, del contemplare. Finita l’era della spiritualità e dell’arte, è sopraggiunta l’era dell’efficienza e del profitto.
Von Holnstein (Umberto Orsini) e Durkheim (Helmut Griem) – immagini dal film
Se von Holnstein è la voce di questa mutazione, la voce della ragione è invece impersonata da Dürckheim. Questo personaggio può capire Ludwig. Può dialogare con lui, essergli leale, averne cura. Quando è costretto a lasciare che il re venga arrestato, lascia indietro la propria spada: non è il gesto di un soldato che ha fallito nel compito di proteggere la corona, ma è il gesto che segna il punto in cui la ragione non ha più potere, non ha più i mezzi per mediare il mondo di Ludwig e quello di von Holnstein, per conciliare il mondo delle illusioni e il mondo del calcolo.
Una nuova filosofia ha preso il sopravvento.