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I diritti e la politica: il DDL Zan, vittima del pensiero italiota

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Cinque mesi orsono che, quasi imputriditosi, il ddl Zan contro l’omotransfobia giace tra gli altisonanti tafferugli del Senato, troppo indaffarato a schermarsi e combattere contro l’epidemia da Covid-19.

È innegabile che la vittoria contro il virus sia sotto gli occhi di tutti, è lampante che ormai siamo agli albori di una nuova rinascita, che l’economia fiorirà come mai prima. Tutto questo, grazie allo strenuo ed estenuante impegno profuso dalla Lega che, ahinoi, è stata costretta, con suo sommo dispiacere, a scaraventare nel dimenticatoio un progetto di legge che nel 2021, attraverso innumerevoli tentativi, di cui solo ultimo è il ddl Zan, compirà un quarto di secolo; e, per carità, mai a deprivarlo del superbo piacere di invecchiare.

Ma le iperboliche gratifiche a quest’insigne partito politico non sono mica finite. Perché sì, è vero che la dedizione impiegata per contrastare il diffondersi del virus dovrebbe esser insignita delle più mastodontiche onorificenze, ma commetteremmo un grave peccato se dimenticassimo che il Senato negli ultimi tempi ha trattato, oltremodo, l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, la riorganizzazione del Coni, e, per di più, è stata istituita una Commissione d’inchiesta sui fatti accaduti alla Comunità del Forteto.

Persino la Comunità del Forteto (con tutto il rispetto dovutole) supera, in fatto di impellente urgenza, le migliaia di atti omofobi, transfobici, bifobi che quotidianamente rimbalzano sul palco scenico tipicamente, folkloristicamente italiano.

Perché se si prova a discutere di omotransfobia, se malauguratamente si tenta di porre l’accento sul fatto che è improcrastinabile qualificare come crimine d’odio l’istigazione alla discriminazione ed alla violenza nei confronti di persone omosessuali, transessuali, bisessuali, dalla folla di bestiame caprino, si alza un boato che accusa i sostenitori del suddetto ddl nientepopodimenoche di “eterofobia”.

Ma non finisce qui. Addirittura c’è chi apostrofa tale legge, definendola “liberticida”: guarda un po’, non si è più liberi di insultare indiscriminatamente chi osa ripudiare il nobilissimo esempio della famiglia tradizionale. E magari ci si limitasse solo agli insulti.

Perché la verità è al cospetto di tutti di noi, limpida e nitida, anche se c’è chi si ostina a rinnegarla, dall’alto del suo elegantissimo papillon, con quel caricaturale sorriso, con quella compostezza imperturbabile e sfacciatamente “democristiana”.

D’altronde, è scientificamente provato che tutti i Pillon d’Italia sono afflitti da irritanti convulsioni, quando assistono ad un bacio omosessuale, persino se è l’Europa a metterli sull’avviso, persino se nella Risoluzione sull’omofobia in Europa del maggio del 2012, l’omotransfobia viene descritta  come “una paura e un’avversione irrazionale provate nei confronti dell’omosessualità maschile e femminile e di lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT), sulla base di pregiudizi”, ed “assimilabile al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo” e, perciò stesso, punibile e sanzionabile.

No. Per Matteo Salvini, Simone Pillon (adesso bisogna fare nomi e cognomi) ed il restante gregge, l’approvazione di un simile progetto di legge addirittura andrebbe a minare i coriacei e granitici pilastri della famiglia “naturale”, attraverso un gigantesco esperimento di ingegneria sociale, suddiviso in quattro fasi: chiudere la bocca a chi la pensa diversamente, introdurre il matrimonio gay, l’adozione omogenitoriale e l’utero in affitto.

Eppure, si annida il vago sospetto che quest’ostruzionismo dall’aroma medioevale, questo perpetuo ed indefesso osteggiare l’amore perverso, maligno, sessantottino, libertino, lascivo, immorale, peccaminoso, si inerpichi a pretestuosi espedienti, cavillose montature, atte solo ad inficiare una proposta legislativa che non attenta a nessuna libertà, né protegge un’illazionistica “lobby gay”, una “casta speciale”, che, ad onor del vero, abita esclusivamente nella fervida fantasia dei suddetti soggetti.

Tant’è vero che il ddl Zan recante “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità” non innesta dal nulla un nuovo testo legislativo, a discapito di quanto vogliano far credere i suoi detrattori; al contrario, esso si propone di modificare due articoli dell’odierno codice penale, 604-bis e 604-ter, tipizzanti la propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa. Ad entrambi i dettati legislativi si aggiungerebbe l’espressione «oppure per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità».

Il suddetto progetto di legge modificherebbe anche la legge Mancino, aggiungendo alle discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi gli atti discriminatori fondati «sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità».

Tale cambiamento implicherebbe che stavolta chi denigra, ingiuria, insulta, pone in essere atti di violenza contro qualcuno, sulla base della sola divergente identità e/o orientamento sessuale, è punito con la reclusione fino ad un anno e 6 mesi o una multa fino a 6mila euro; se corroborato da circostanze aggravanti, la pena si inasprisce ulteriormente, con la reclusione da 6 mesi a 4 anni.

Ma vi è di più.

Chi sventola impudicamente la propria doglianza avverso tale disegno di legge, additandolo come “liberticida”, assassino della tanto conclamata “libertà di pensiero”, costituzionalmente tutelata ex art. 21 Cost., allo stesso tempo fa sfoggio anche della propria non-conoscenza del suddetto ddl. Tant’è vero che all’art. 4, rubricato come “Pluralismo delle idee e libertà delle scelte”, si asserisce che «ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti».

Ergo, non solo nella proposta legislativa vi è una lapalissiana “clausola salva-idee”, ma soprattutto essa non estende la tutela alla fattispecie di propaganda, ma solo alle ipotesi di istigazione alla discriminazione e alla violenza, nonché agli atti di discriminazione e di violenza. Già questo argomento sarebbe sufficiente a scongiurare qualsiasi balzana preoccupazione, in ordine a future (e immaginarie) limitazioni della libertà di espressione.

Ma ancor di più, non si comprende la ragione fondante per la quale, questa presunta e mal imbastita “privazione di libertà di pensiero” debba valere solo per le discriminazioni omotransfobiche e di genere, e non anche per quelle razziali e religiose, da sempre oggetto di presidio penalistico.

Perché risuonano enfatiche e declamatorie le parole di uno tra i principi più icastici della nostra Carta costituzionale: il principio di uguaglianza formale e sostanziale.

È irrefutabile che l’identità di genere, l’orientamento sessuale siano caratteristiche protette, annoverate fra quelle inerenti all’uguaglianza formale, che garantisce il pari valore delle “differenze” (cosiddetto principio di ragionevolezza), degne, pertanto, di tutela da parte della legislazione contro i crimini d’odio.

E allora, toglietevi la maschera. Ché riconoscere agli altri il sacrosanto diritto d’amare non defrauda nessuno di alcun altro diritto, ché questo temutissimo avvento della diversità forse restituirà il respiro della libertà a chi è agonizzante in una Pangea di immotivata ostilità. Perché

«Il diritto d’amore è un diritto di libertà, e non l’esito di una concessione. Riconoscere una libertà è sempre difficile, sicuramente traumatico, quando la realtà si sottrae alla pretesa di incarnare valori da tutti condivisi.»

Diritto d’amore, Stefano Rodotà
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