Se decidiamo di abbracciare l’assunzione politica e sociale per cui la meritocrazia è la massima espressione di giustizia sociale e strumento dalla massima efficacia per il raggiungimento degli obiettivi dei singoli, che con il solo impegno possono arrivare dove in un’epoca passata non avrebbero mai potuto, dovremmo forse chiederci da quale posizione stiamo spalleggiando il sistema del merito come criterio istitutivo di valori. E chiederci, anche, ‘che cos’è il merito?’.
Se viviamo in un sistema liberista non potremmo far altro che credere che il merito sia la semplice associazione di quoziente intellettivo e impegno[1]. La combo dei due fattori condurrà tutte le persone, indistintamente, al successo. L’American Dream è capofila di questa retorica motivazionale e baluardo di giustizia sociale in cui il ‘merito’ individuale si trasforma sostanzialmente nel valore di mercato dei singoli. Che cosa succede nel racconto meritocratico a chi non riesce a scalare la piramide del successo e a raccogliere i frutti del proprio impegno? La fiaba risponde che non ci si è impegnati abbastanza perché il posto che ciascuno occupa nella società è il risultato diretto della propria dedizione. Ne consegue una lettura per cui ogni disparità sociale ha un fondo di giustizia, in quanto autodeterminata dai singoli che non sono riusciti a sfuggirne per mancanza di impegno o intelligenza. Lo sguardo giudicante verso la disparità acquista così un fondamento morale. È quindi così che, mentre racconta di giustizia ed eguaglianza, la fiaba della meritocrazia crea i presupposti per una stratificazione sociale di nuovo tipo: coloro che falliranno nel raggiungimento di risultati socialmente soddisfacenti saranno visti dagli altri, e forse anche da sé stessi, non più come persone sfortunate, ma come persone che in realtà non si meritavano nulla di più[2].
Ma in una gara di merito non si dovrebbe forse tutti partire dalle stesse condizioni di partenza? Quanto è legittimo parlare della società meritocratica come la società più giusta se tali condizioni risultano profondamente differenziate? Varrebbe la pena chiedersi se il ‘merito’ possa essere considerato un valore assoluto in condizione di assoluta disparità. E varrebbe quindi la pena introdurre, al fianco dell’idilliaco concetto di merito, una dimensione contestuale: ci sono delle condizioni esterne che impediscono all’agente di concorrere alla pari di un altro soggetto?
Se la risposta è si, potrebbe ancora valere la pena concentrarsi sulla società del merito, se solo questo fosse accompagnato da adeguate politiche volte a sanare condizioni di partenza diseguali: assistenzialismo, aiuto, politiche di riequilibrio. Se ciò non accade, la fiaba meritocratica continuerà a raccontarci di giustizia e avvierà incentivi al merito sempre nuovi, anziché promuovere misure per le pari opportunità[3], in una narrazione sempre più miope ed impari che difende privilegi di ceti e generi[4].
Il racconto meritocratico si concentra spesso sull’uguaglianza di opportunità educative come specchio della proporzione tra impegno e risultati ma non considera che la forza della classe sociale spinge in senso opposto: le condizioni di partenza dei bambini influiscono sulla loro capacità di studiare in un ambiente favorevole, sul tempo che possono dedicare allo studio, sul percorso di studi scelto. Quanto può investire una famiglia che non gode di adeguato supporto sociale o statale nell’istruzione dei propri figli? Quanto tempo? Quanto denaro? Qual è la percentuale di rischio che può accettare di correre? Non solo tutti questi interrogativi non concorrono a rallentare o ad inficiare l’educazione di un bambino con condizioni di partenza più favorevoli, ma la stessa educazione non avrà nemmeno lo stesso valore a livello di merito sociale per due bambini con condizioni di partenza impari: mentre per il bambino che parte in posizione di svantaggio l’educazione rappresenta probabilmente l’unico, e ancora più complesso, strumento per accedere al proprio riscatto sociale, nel caso di un bambino con condizioni di partenza privilegiate questo non è necessariamente vero, in quanto avrà a disposizione, con ogni probabilità, ulteriori risorse per mantenere la propria condizione di privilegio. Di nuovo appare quindi chiara la necessità di avviare misure politiche appropriate per ridurre le disuguaglianze delle condizioni di classe, dal punto di vista della sicurezza, della stabilità e delle prospettive economiche.
“La meritocrazia, o più precisamente la meritocrazia basata sull’istruzione, rappresenta un obiettivo apparentemente «progressista» che i partiti di centro-sinistra possono perseguire, ma che non comporta alcuna misura politica radicalmente redistributiva”[5].
J. Goldthorpe e M. Jackson, la meritocrazia dell’istruzione e i suoi ostacoli, Stato E Mercato / n. 82, aprile 2008
L’ipocrisia politica e sociale raggiunge quindi il suo apice nella totale assenza di critica ad un sistema che racconta di se stesso prodigi egualitari, issando in alto casi rari ed unici di riscatto sociale, e tacciando di inadeguatezza la maggioranza ormai non riscattata e non riscattabile. Un nuovo sistema di discriminazione è così costruito attraverso il sistema del merito, un sistema di discriminazione ancora più forte del precedente perché intriso di retoriche possibiliste e strutturato su una solida base di giudizio morale. L’ipocrisia borghese, ancora, trionfa.
[1] Michael Young, The Rise of Meritocracy, 1958
[2] J. Goldthorpe E M. Jackson, la meritocrazia dell’istruzione e i suoi ostacoli, Stato E Mercato / n. 82, aprile 2008.
[3] C. Barone, Le trappole della meritocrazia, 2012
[4] C. Castelfranchi, Che meritocrazia ci meritiamo?, Fascicolo 3, dicembre 2015.
[5] J. Goldthorpe E M. Jackson, la meritocrazia dell’istruzione e i suoi ostacoli, Stato E Mercato / n. 82, aprile 2008.