Proteste studentesche pacifiche, quando la violenza istituzionale è raccontata ed agita come legittima 

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Si può parlare di ‘shock’ quando la morte di un ragazzo di 18 anni sul luogo di lavoro è preceduta da oltre 1.200 morti avvenute nelle stesse circostanze solo negli ultimi 12 mesi? Si può poi parlare, in effetti, di luogo di ‘lavoro’, se il tempo speso a servizio di un’azienda, le risorse messe a disposizione per il capitale non sono nemmeno retribuite? Si può parlare di responsabilità, e di colpe, e di omicidi, e di sfruttamento, e di diritti mancati, e di una gestione malsana e unicamente orientata al profitto, in uno Stato che assiste e provoca, in media, la morte di tre lavoratori al giorno durante l’orario di servizio?

Non è il sarcasmo lo sfondo di queste domande. Non è sarcastico, né tanto meno silenzioso il ‘NO’ in risposta a questi interrogativi. Oggi no, non è possibile produrre, ancora, una narrazione deresponsabilizzata che sceglie la parola ‘shock’ per descrivere l’ennesima morte, statisticamente così prevedibile. E non è d’altronde possibile parlare di ‘lavoro’, se i requisiti minimi dello stesso – guadagno e sicurezza – non trovano risposta. E no, non è possibile esprimere cordoglio, se non in silenzio, e protesta, se non immobile, nei confronti di un sistema che produce politiche sociali profondamente inadeguate a tutelare il cittadino, in ogni sua fascia di età. No, non è possibile, perché se fosse concesso, e lecito, e riconosciuto come legittimo, in quattro città, territorialmente lontane, non si sarebbe verificato lo stesso identico evento di risposta ad una protesta così intimamente legittima come quella che vede studenti, e professori, e lavoratori uniti contro l’ennesima morte e l’assenza di tutele. No, non è legittimo, perché se lo fosse, non ci sarebbe stato altro sangue a testimoniare ancora la divisione così netta tra le esigenze di una cittadinanza e l’ordine che dall’alto le si impone. 

A Torino, Milano, Roma, Napoli, studenti e lavoratori si sono uniti in lutto e in protesta contro le colpe e i colpevoli dell’ennesima morte. Si sono uniti in protesta contro il sistema che le ha provocate. Si sono uniti, spontaneamente e pacificamente, per reclamare diritti che dovrebbero esser loro garantiti. Tipo, ad esempio, la vita. O l’educazione, o la sicurezza, o la sindacalizzazione. La risposta è stata netta, e compatta, e univoca: ripetute cariche della polizia contro un gruppo di ragazzi, anche minorenni. Manganelli, spinte, mani alla gola. E quindi teste rotte, ossa spezzate, stati di shock. 

Samuele, 22 anni, mi racconta: “a Torino eravamo al massimo 200 persone. Ho contato almeno 100 poliziotti. Ce ne erano ad ogni uscita della piazza”. Giulia, 18 anni, aggiunge: “non potevamo uscire, ci hanno bloccati nella piazza. Era pericoloso, c’erano anche delle macchine. Abbiamo provato a parlare con la Digos, ma ci hanno detto che non c’era, abbiamo provato a parlare, a far procedere il corteo in modo pacifico. Ci abbiamo provato in ogni direzione, ma ogni uscita era sbarrata da un cordone della polizia. Ad un certo punto volevamo procedere verso Via Bertola che è una strada stretta, siamo rimasti bloccati in pochissimo spazio. La polizia è partita con l’ennesima carica e mentre noi indietreggiavamo loro avanzavano, con i manganelli. Io sono stata colpita mentre aiutavo un ragazzo. Mi sono sentita male e avevo un forte dolore e poi sono svenuta. Ho un’anca rotta. So che alla fine i ragazzi al corteo hanno dovuto rinunciare, hanno girato in tondo nella piazza e si sono fermati. Hanno fatto un’assemblea”. 

I ragazzi e le ragazze presenti nelle piazze hanno fatto dei video. Hanno ripreso chiaramente la violenza che hanno ricevuto in riposta ai loro volti scoperti, alle loro mani vuote. Si sente chiaramente un poliziotto rispondere alla paura di alcuni ragazzi dicendo “stiamo facendo il nostro lavoro”. Si vede un ragazzo con le mani alzate che tenta di parlare con un poliziotto ricevere una forte spinta e una manganellata in risposta. Si vedono decine di poliziotti schierati, in tenuta antisommossa, con caschi e scudi e manganelli, aggredire una folla di ragazzi. Si vedono decine di poliziotti schierati agire con violenza incontrollata, descritta come “cariche di alleggerimento” e “difesa” da troppi giornali, che scelgono di tacere o di etichettare implicitamente come legittima una violenza che nulla ha di difensivo, se il requisito stesso di difesa è un attacco che la precede. I ragazzi in protesta non avevano armi. Non agivano violenza. Agivano protesta. Agivano protesta pacifica, la cui massima esplosione è stata, in una delle città, il lancio di uova di vernice rossa a simboleggiare il sangue di Lorenzo Parelli, morto durante l’alternanza scuola-lavoro. La vernice ha colpito l’asfalto, nel peggiore dei casi uno scudo. Cariche pesanti seguono. Decine di feriti. 

Nella completa assenza di una proporzionalità nella dinamica della violenza agita, nell’assenza di ogni equilibrio tra azioni e possibili reazioni, nell’assenza di ogni remora nel picchiare con violenza ragazzi e minorenni, appare tutt’altro che azzardato parlare di abuso di potere agito in nome di sicurezza e ordine pubblico che andavano, ad ogni costo, mantenuti. Ordine pubblico agito, quindi, attraverso aggressioni e violenze da parte di chi, l’ordine pubblico, avrebbe dovuto mantenerlo.

Viene poi da chiedersi: quale sarebbe stato lo sfaldamento dello stesso ordine pubblico in una collettività impegnata in una pacifica marcia? E se la pronta risposta è nella sicurezza anti-contagio nell’epoca del Covid, viene allora da chiedersi: non sarebbe stato forse più sicuro far procedere una marcia invece che bloccarla e produrre quindi una folla, aggredita poi in maniera incontrollata?

E se la riposta è nella legge, una legge che ammette la violenza in caso di manifestazioni sediziose, si dovrebbe forse rendere univoco il significato di ‘adunanza sediziosa’ e la sua risposta. Se sediziosa è un’adunanza che mette in pericolo la sicurezza dei cittadini, un’adunanza in cui sono commessi delitti, in cui ci si esprime dichiaratamente a favore di associazioni faziose, appare quindi lecito chiedersi: come può una manifestazione spontanea, dichiaratamente pacifica, agita per lo più per mano di studenti e minorenni a volto scoperto e disarmati, risultare sediziosa a tal punto da richiedere una violenza che rompe ossa e teste? E non era forse sediziosa, allora, l’aggressione alla sede della CGIL a Roma avvenuta solo pochi mesi fa? Un attacco squadrista, fascista, preorganizzato. Sedizioso, eppure, illeso. E non è forse, ogni anno, sediziosa, l’adunanza romana a quella che è, a tutti gli effetti, una commemorazione dichiaratamente fascista alla strage di Acca Larentia? Sediziosa, sì, eppure, ogni anno, illesa. 

Forse iconica l’assenza, in queste occasioni, di una polizia pronta ad attaccare. Forse iconica la reale prontezza all’attacco nei confronti di studenti. Non solo il 23 gennaio, non solo il 28 gennaio, ma anche il 15 gennaio, ad esempio, in una protesta contro lo smantellamento di uno spazio pubblico dedicato agli studenti di Torino. Anche a Roma, pochi giorni fa, in risposta ad un’ulteriore protesta studentesca in richiesta di ascolto. 

Viene spontaneo chiedersi cosa sarebbe successo, nell’opinione pubblica, nell’opinione politica, nelle piazze in protesta, se non ci fossero stati decine di cellulari a riprendere tali abusi? E che cosa sarebbe successo, invece, se ogni agente avesse avuto sulla divisa un codice identificativo ben visibile? 

D’altronde, non a caso, ormai 10 anni fa il Parlamento Europeo ha esortato gli Stati Membri a garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo che permetta di individuare gli esecutori di violenze perpetuate in nome delle forze dell’ordine. Violenze che nulla hanno di ipotetico, in una storia che vede le forze dell’ordine colpevoli, ma mai accusate, di innumerevoli violazioni dei diritti umani. I fatti successivi al G8 di Genova rappresentano solo uno degli esempi che dimostra, con 250 procedimenti penali archiviati per impossibilità di identificare gli agenti responsabili, la necessità di un’identificazione individuale di ogni agente di polizia. 

“Che cosa farete adesso?” ho chiesto a Giulia. “Non lo so. Noi continuiamo la nostra lotta. Non dobbiamo nulla di più che la verità”. 

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