Lavoro “all’italiana”: il labile confine tra offerte di lavoro e sfruttamento

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Siedo sulla schiena di un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi. E intanto cerco di convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e manifesto il desidero di migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile. Tranne che scendere dalla sua schiena.”

Lev Tolstoj, “Che fare?”

Era il 1886, quando Lev Tolstoj, a seguito di una meticolosa indagine circa le condizioni sociali della popolazione di Mosca, diede alle stampe il saggio intitolato “Che fare?”, carpendo fin dal primo istante l’infimo e indigente ambiente che imbrigliava la povertà cittadina protocapitalistica.

Era il 1886, ed essere poveri, vivere in condizioni miserevoli era mortificante, svilente, umiliante, come uno stigma dal quale doversi affrancare (e nel minor tempo possibile), come un peccato ignominioso da dover espiare, come una spregevole colpa dalla quale redimersi. Era doveroso vivere nascosti, nella caverna platonica, perché non meritevoli della luce del sole, dileguarsi, sparire ché gli stenti destano scandalo, e non sarebbe buon uso turbare la vita tranquilla di agiate persone borghesi.

È il 2021, e chi aspira a svolgere un lavoro, che rechi con sé lo sconosciutissimo marchio della dignità, viene etichettato come lavativo, scansafatiche, perditempo, fannullone, o peggio ancora come viziato, capriccioso, schizzinoso e tanti altri epiteti che celano solo un massiccio desiderio di sfruttamento delle suddette agiate persone borghesi, odiernamente meglio noti come imprenditori.

Eppure esiste la Costituzione – la nostra splendida Costituzione, la più bella del mondo – che, a gran voce, declama non solo che la Repubblica è fondata sul lavoro, ma anche che riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto. E – pensate – addirittura, l’Assemblea costituente aveva persino predisposto un sistema di tutele per il lavoratore stesso, una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, riposo settimanale, ferie annuali retribuite, lo sciopero, e per chi fosse inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, aveva sancito il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.

È abbastanza evidente che i Padri costituenti non avessero condotto la stessa vita di chi oggi appartiene alle fila delle “agiate persone borghesi”, che avessero messo nero su bianco uno dei fondamentali principi morali, incastonati tra le pietre miliari della filosofia etica: «l’oggetto su cui si contratta non è altro che la loro anima, l’anima dei lavoratori», prendendo in prestito le parole di Simone Weil. E questo, perché «svilire il lavoro è un sacrilegio esattamente come calpestare un’ostia».

La filosofa francese c’aveva visto giusto già più di un secolo fa, insieme agli insigni autori della Costituzione; e non dimentichiamo le indispensabili e strenue lotte di chi poi ha fatto sì che fosse promulgata la legge 20 maggio 1970, n. 300 – meglio conosciuta come “Statuto dei lavoratori”.

Eppure, nell’Italia del 2021, queste mirabolanti istanze di uguaglianza sostanziale, di democrazia effettiva poggiantesi sull’assioma della liturgia del lavoro sembrano essersi, tutt’a un tratto, dissolte. In questo paese per vecchi, nostalgici ancorati alla prima repubblica, non vale più il detto “scripta manent”, al contrario: scripta volant, perché le norme costituzionali, le leggi ordinarie sono composte di sublimi parole, ma quando bisogna metterle in atto, formidabilmente subentra la libera interpretazione, che rinviene il proprio fulcro nodale in un unico vocabolo: sfruttamento.

Quotidianamente, assistiamo inerti al patetico piagnisteo di giornaletti di carta straccia che “temerariamente” denunciano le gravose e preoccupanti condizioni in cui riversano migliaia di imprenditori, dal momento che, ahinoi, non riescono ad ingaggiare giovani volenterosi, disposti a percepire uno stipendio che si aggira tra i 400 e gli 800 euro, per appena appena 12 o 13 ore di lavoro al giorno e, talvolta, senza nemmeno il lusso sfrenato della pausa di un’ora.

Perché il lavoro è sacro, ma non quando si tramuta in un’infinita serie di prevaricazioni al sapore di ipocrita benaltrismo, non quando si imputa la colpa al reddito di cittadinanza, cancro dell’umanità, responsabile di un’iperbolica accidia lavorativa, elemento che permette di poltrire comodamente sul divano, senza preoccuparsi troppo di spaccarsi la schiena, di espletare lavori usuranti, che alienano del tutto la dignità personale. Eppure, guarda un po’, lo scopo di quest’infernale e lascivo strumento ab origine era proprio questo: accettare di lavorare dignitosamente, ripudiare la retorica – ormai demodé – dell’esaltazione speculatrice dello schiavismo, poter rifiutare, a testa alta, qualunque becero ricatto economico.

Perché se questi signori, eccellenti perfomer di vessatorietà, osservassero i requisiti preposti da un qualsiasi CCNL, la paga sindacale per 40 ore, tredicesima, quattordicesima e liquidazione inclusa, confluirebbe in uno stipendio netto di 1.400 euro almeno.

Ma siamo in Italia, quel paese ormai inveteratamente schierato dalla parte del più forte, quello che spintona i propri figli ad andar via, infischiandosene di loro, ma poi, quando si allontanano per davvero per non tornare più, piagnucola sul cadavere delle forze-lavoro ormai perdute. Quel paese intriso di fintissima meritocrazia, dove predomina lo snervante imperativo categorico del sacrificio, ma spesso è un sacrificio che si ritorce su se stesso, vanificandosi in un’estenuante frustrazione.

La verità è che non siamo fannulloni, scansafatiche, pigri o viziati, ma solo stanchi di uno schiavismo imbellettato da “perequativa” offerta di lavoro.

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